Diritti civili
Suicidio assistito, una scelta di pietas
L’introduzione di Giuliano Amato al volume sul dialogo tra opposti intorno al suicidio assistito, promosso dalla Fondazione Cortile dei Gentili del cardinale Gianfranco Ravasi
Il 25 settembre al Senato, la Fondazione Cortile dei Gentili ha presentato l’ultimo lavoro della sua consulta scientifica “Dialogo sul suicidio medicalmente assistito”, edito da CNR Edizioni. La Fondazione è stata istituita dal cardinale Gianfranco Ravasi Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, da un’idea di Benedetto XVI, per promuovere il dialogo tra credenti e non credenti. «La Consulta scientifica - ha scritto il cardinale Ravasi - è riuscita a condurre una ricerca antropologica su un tema etico così radicale, rappresentando e considerando sensibilità, visioni e prospettive diverse. Sono convinto che sarà accolta con forte interesse non solo dal mondo ecclesiale, che ha al riguardo le sue specifiche opzioni teologico-morali, ma anche dalla cultura “laica”, coi suoi percorsi etico-sociali, e dalla stessa politica». Pubblichiamo qui un estratto della prefazione di Giuliano Amato Presidente della Fondazione Cortile dei Gentili e della Consulta scientifica al volume.
Il suicidio assistito è un tema su cui esistono, e sono fortemente radicate, opinioni diverse. Hanno spesso fonte religiosa, ma non solo. Nota il documento qui pubblicato, e proprio al suo esordio, che la differenza fra lasciar morire e aiutare a morire ha fonti epistemologiche e non c’è volontarismo, di nessun genere, che possa cancellarle.
Di ciò, noi del Cortile, siamo abituati a prendere atto, si tratta anzi, quasi sempre, del nostro punto di partenza; partenza verso la ricerca di un punto di incontro, che non sacrifichi l’opinione di alcuno, ma consenta di convergere verso soluzioni, che comunque tengono conto di tutti. È quello che, sia pure con difficoltà e con dubbi che rimangono aperti a ulteriori riflessioni, è accaduto anche questa volta.
Certo, ci ha unito il rispetto degli uni per i principi degli altri, e quindi, qui, il rispetto da un lato per l’indisponibilità della vita, dall’altro per l’autodeterminazione. Ma ciò che ci ha consentito di procedere in una ricerca comune non è stato il tentativo di metterli teoricamente d’accordo. È stata la comune volontà di non metterli esplicitamente in campo davanti a circostanze nelle quali dominante era ed è per tutti noi un fortissimo e fortemente condiviso fattore comune: la pietà umana, che è insieme sentimento di solidarietà e fonte di azione solidale.
Ci ha aiutato in questo la sentenza della Corte Costituzionale, che nel 2019 ha aperto la finestra di immunità penale per il suicidio assistito, in circostanze quali quelle del caso che aveva davanti, il caso di Fabiano Antoniani (DJ Fabo); un giovane che poteva vivere, ormai, soltanto nella prigione meccanica in cui era chiuso, che aveva sofferenze non lenibili e prospettive ormai limitate di vita, e che aveva chiesto a quel punto pietà: aiutatemi a morire.
È giusto che si discuta sulle condizioni poste in quel caso dalla Corte per definire e delimitare la finestra di immunità: quanto esigue le prospettive di vita, quanto intense le sofferenze e quale potrebbe essere il ruolo qui delle cure palliative, quanto conta il trattamento di sostegno vitale e in che cosa può consistere. È giusto che se ne discuta, perché solo quando queste condizioni raggiungono un determinato livello e tutte insieme sono in grado di convincere il malato che la sua vita in realtà è finita, che i suoi giorni futuri sono solo giorni di attesa sofferente della morte, che nessun progetto gli è più possibile se non quello di resistere, se ci riesce, alla sofferenza, solo a quel punto la sua richiesta di pietà, se arriva, riesce a diventare ineludibile, al di là dei principi.
Già, perché non sarebbe la stessa cosa se le condizioni fossero, magari solo in parte, diverse, se la sofferenza non fosse così insopportabile, o le condizioni di vita non altrettanto sacrificate. In casi del genere, la solidarietà mi porterebbe a dire al malato di viverlo ciò che gli rimane, di farle le esperienze ancora possibili, di goderselo, finché possibile, il rapporto con gli altri che gli stanno a cuore. C’è un’umanità, in lui, che ancora può ricevere e dare. Il suo diritto e dovere di essere umano è quello di farlo.
È tutto questo che ci aiuta a capire che è questione di circostanze, non di principi. Sono le circostanze che, al di là dei principi che ci dividono e in nome della pietas che ci unisce, possono portarci a scelte comuni e a sentirle legittime nella nostra coscienza. Certo, i dubbi non mancano, perché le circostanze che possiamo trovarci davanti non sono necessariamente dirimenti e quando le sentiamo come non dirimenti allora le differenze possono riaffiorare. La sofferenza psichica può valere da sola o vale solo quando accompagna quella fisica e ne è la conseguenza, distruggendo la speranza? Nel secondo caso ce la sentiamo più facilmente di accogliere la richiesta di aiuto, nel primo meno, e di ciò il nostro documento è testimonianza. Ma c’è chi, fra di noi, la pensa diversamente e pensa che, nei casi più gravi, la depressione possa distruggere da sola, e in modo irreversibile, ogni speranza di vita. Rendendo meritevole, in nome della stessa pietas, la richiesta di aiuto. È una diversità di opinioni che, al momento, rimane aperta.