Un racconto diverso sul femminicidio è possibile. Senza retorica né stereotipi. Come fa Daniela Collu protagonista della serie "Ogni 72 ore". Che ci dice: «Ancora oggi la mascolinità è un valore perché porta potere. Questa società fatica a riconoscere la gravità di un problema sistemico. Serve uno Stato nuovo»

Carol Maltesi ha 25 anni quando viene fatta a pezzi. Il suo assassino ha tenuto il corpo smembrato nei sacchi dell’immondizia per 72 giorni fingendo che fosse ancora viva. Ma a lui in primo grado non è stata riconosciuta né la premeditazione né la crudeltà. D’altronde la vittima era bella, molto bella, e mostrava il suo corpo, il suo, non quello di un altro, sui siti porno. E nel racconto sulla sua morte questo è diventato in qualche modo un’attenuante, una colpa. 

 

Marianna Manduca invece, aveva denunciato il suo ex marito ben dodici volte, un numero infinito, persino da dire. Aveva paura e credeva che chiedere aiuto potesse proteggerla. Invece non l’ha ascoltata nessuno, sino a che lui l’ha uccisa a coltellate, mentre uno Stato silente si è fatto complice di quella tragedia. 

 

Sara Di Pietrantonio amava la danza e la vita, e aveva allontanato quel suo ex troppo geloso, che dopo averla ossessionata con la sua mania del controllo, con quel fiume di messaggi e minacce e accuse continue, l’ha strangolata, prima di darle fuoco in mezzo alla strada. 

 

E poi Jennifer Sterlecchini, una giovane donna che aveva provato a riprendere in mano la sua esistenza, un lavoro, un’indipendenza senza di lui, l’uomo che l’ha accoltellata dodici volte, il giorno in cui era tornata a casa a recuperare le sue cose. La mamma era fuori dalla porta chiusa e ha sentito solo le urla della figlia, mentre gridava: «Mi sta ammazzando». All’assassino, che aveva pianificato le sue mosse in ogni dettaglio, è stato concesso il rito abbreviato: niente ergastolo.

 

Sono quattro storie di donne e dei loro femminicidi, che Sky Crime ha scelto per “Ogni 72 ore”, un viaggio nell’orrore quotidiano guidato da Daniela Collu, autrice, scrittrice, blogger, operatrice della comunicazione in senso ampio, e che da questo immane lavoro ricostruttivo e puntuale ha fatto nascere anche un podcast in collaborazione con DonneXStrada.

 

 

 

Ogni 72 ore viene uccisa una donna per mano di un uomo, e il che significa che ogni volta che accade sappiamo che dopo tre giorni succederà di nuovo e potrebbe toccare a noi, alla nostra amica, a nostra sorella. E questo abisso Daniela Collu riesce ad affrontarlo con le parole giuste, toglie, screma, bandisce le lacrime, il sentimento e la retorica posticcia degli aggettivi, per avvalersi solo di atti, testimonianze, fatti. «È agghiacciante come di solito viene raccontata la violenza di genere. Ancora oggi ci si chiede com’era vestita la vittima, oppure scappano le parole, come “bravo ragazzo”, “raptus” o “troppo amore”, quando sappiamo bene che la prevaricazione è l’esatto contrario dell’amore. La costruzione del racconto è il racconto stesso. Pensiamo a un programma pop come “Temptation Island” dove le storie tossiche sono un continuo, donne di 24 anni che non possono uscire da sole perché lui non vuole, e vanno in onda bellamente in prima serata perché è meglio fare tre milioni di spettatori. Insomma, è l’approccio di pensiero che abbiamo che è ancora profondamente sbagliato. Si tende sempre a giustificare il carnefice, ci si sforza di capire cosa aveva fatto la vittima per portarlo a tanto, e questa modalità è una costante che troviamo in tv, sui social, nei titoli di giornale ma anche nelle sentenze. Possiamo definirlo un bug concettuale».

 

Attiva da tempo contro la violenza di genere, Collu si è sempre esposta evidenziando le mancanze del sistema e le sue criticità. «Con Sky Crime ci siamo incontrati sulle intenzioni. Abbiamo provato a costruire una serie che fosse una piccola rivoluzione, facendo uscire le donne uccise dal consueto riquadrino del vittimismo, provando a capire cosa delle loro storie andava raccontato e quali erano gli elementi portanti per scavare davvero a fondo. L’operazione delle quattro autrici di “72 ore” è passata oltre che attraverso atti e testimoni, anche dalla la lettura e l’ascolto di oltre 16mila messaggi WhatsApp. Perché ci sembrava l’unico modo per spiegare l’inferno, la creazione di queste sistematiche tele di ragno dentro cui impigliare le donne senza dargli scampo. E ci siamo anche rese conto che il sistema giudiziario non è pronto, in questo momento non lo sa fare. Bisognerebbe ripartire da capo per avere uomini nuovi, donne nuove e uno Stato nuovo capace di affrontare questo fenomeno».

 

La consapevolezza, dunque, parola che torna e ritorna in tutti e quattro gli episodi come un’urgenza. «La consapevolezza passa anche attraverso l’abitudine a sentir parlare di una cosa in un determinato modo. Ma noi parliamo come pensiamo e questo fenomeno lo pensiamo male. Lo sentiamo lontano da noi, borderline, gigantesco. Invece è piccolo, invece è tragicamente vicino».

 

Perché se è vero che tutte le donne leggendo una storia di femminicidio si sono chieste «poteva succedere a me?», quanti uomini lo hanno fatto davvero? «Il problema – dice Collu – è ancora vissuto come assolutamente femminile. Faccio un esempio bruto: se noi avessimo notizia di una strage di animali domestici, uccisi come vengono ammazzate le donne e si parlasse di un fenomeno in termini sistemici, avremmo tutti gli animalisti in piazza. Allora bisogna cominciare a pensare ai femminicidi come a un fenomeno totale. Questa società fatica a riconoscere la gravità del problema e il fatto che sia ormai sistemico, radicato. La presa di coscienza maschile presuppone un ripensamento maschile, serve arrivare a un punto in cui gli uomini si interroghino davvero, sul fatto che siano loro ad ammazzare le donne. Ancora oggi la mascolinità è un valore perché porta potere. Allora bisogna azzerare le posizioni e ricominciare».

 

Un macigno, che pesa sul nostro vivere collettivo e che ci dà una responsabilità verso le nuove generazioni che troppo spesso non siamo in grado di gestire. «Assolutamente sì», risponde Daniela Collu. «L’educazione sentimentale, sessuale e affettiva deve necessariamente entrare in classe. Però è folle che a farsi carico di questo peso siano sempre le famiglie delle vittime a cui invece bisognerebbe regalare solo pace e giustizia. Da Gino Cecchettin, che non ha mollato di una virgola il suo impegno, a Tina Raccuia, la mamma di Sara Di Pietrantonio, che è una dipendente pubblica costretta a prendere le ferie per andare a fare l’educazione nelle scuole. Ed è assurdo, perché la madre di una vittima di femminicidio, la cui figlia è morta perché il fidanzato le ha dato fuoco in mezzo alla strada, dovrebbe averle dallo Stato le giornate per andare a fare sensibilizzazione. Invece la stiamo lasciando da sola. Questa non è una società civile».Eppure ormai anche “femminismo” viene considerata una brutta parola e non una necessità. «Ma io vado anche oltre – risponde Collu. Il femminismo non può riguardare solo le donne ma l’intera società  A un certo punto, e lo dico con enorme dolore, noi ci fermiamo se non c’è l’altro 50 per cento dell’umanità che ci viene dietro. Io non posso cambiare niente se non cambia il mio assassino». C’è ancora domani, ha detto qualcuno e l’ha detto assai bene. «Se dobbiamo aggrapparci a una luce in fondo a questo tunnel – conclude Daniela Collu – dovrebbe essere nel cambio generazionale. Ma così a occhio mi sembra che ci sia ancora tantissimo presente da aggiustare. Al futuro ci penseremo».