Rinnovo del contratto al palo. Zero sicurezza. Tagli agli investimenti. Costo della vita alle stelle. Per chi lavora su bus, tram e metro è inferno quotidiano. Ma il governo è sordo e alla fine pagano i viaggiatori

Traffico urbano quadruplicato. Spostamenti impossibili. Lavoratori imbufaliti o rassegnati in attesa sotto il palo di una fermata del bus. Turisti perplessi. Ambulanze imbottigliate. Taxi? Non scherziamo. Per dipingere il quadro possibile di venerdì 8 novembre, giorno dello sciopero del trasporto locale senza fasce orarie garantite, non serve molta fantasia. Al momento di andare in stampa è impossibile prevedere se Matteo Salvini, vicepremier e ministro di infrastrutture e trasporti (Mit), interverrà con la precettazione come fece nel novembre 2023 e nel dicembre seguente incassando la condanna del Tar del Lazio a marzo di quest’anno. Importa relativamente. Se non è oggi, sarà domani, in un calendario che include le proteste dei medici il 20 novembre, che ha appena registrato l’astensione degli avvocati dal 4 al 6 novembre contro il pacchetto sicurezza e che ha già un appuntamento chiave il 28 novembre con lo sciopero generale indetto dal binomio Cgil-Uil.

Ma anche nel quadro di un autunno parecchio accaldato, nessun comparto è in tumulto come il trasporto pubblico locale o tpl. Le statistiche sugli scioperi pubblicate dal sito del ministero (https://scioperi.mit.gov.it/mit2/public/scioperi) contano 40 giornate di astensione dall’inizio dell’anno fino al 31 ottobre scorso nei trasporti a livello nazionale. Il settore più colpito è quello ferroviario con diciotto giornate, seguito dagli aeroporti con dodici e dal tpl con dieci. Martedì 5 novembre si è aggiunto uno sciopero nazionale del personale viaggiante di Trenitalia, Trenord e Italo dopo l’ennesima aggressione a un capotreno, Rosario Ventura, accoltellato mentre era in servizio a Genova su un regionale, lo scalino più trascurato del servizio dove ritardi, cancellazioni e violenze sono normale amministrazione.

Se a questi numeri si aggiungono le vertenze regionali, interregionali, provinciali, locali e aziendali, il solo trasporto locale arriva a 54 giornate di interruzione del servizio. La media è di uno sciopero ogni sei giorni, festività comprese. La sospensione proclamata da tutte le sigle sindacali per venerdì 8 novembre è la terza per il rinnovo del contratto nazionale.

A domanda diretta se non ci sia il rischio che il fermo mezzi penalizzi soprattutto altri lavoratori appartenenti alla stessa fascia di chi li trasporta, Stefano Malorgio, segretario nazionale di Cgil-Filt non si sottrae: «Certo, il rischio c’è. Non sono fiero e non mi fa piacere vedere uno sciopero di questo tipo. Faremo volantinaggi nei luoghi più frequentati per spiegare che non abbiamo altre azioni a nostra disposizione e che, a fronte dei disagi, il governo dovrebbe convocare le parti per aprire un negoziato. Invece non succede. Quello che succede sono i tagli al fondo nazionale dei trasporti. Si sono persi per strada 1,5 miliardi di euro in dieci anni a danno delle aree a bassa densità abitativa rimaste senza servizio. Persino le grandi città sono in sofferenza. Ci vorrebbero almeno 900 milioni di euro in più perché, nel frattempo, è salito il costo dell’energia e con il 2024 finirà l’effetto dei ristori per il Covid. A Milano l’acquisto della linea metro 4 ha pesato sulla contabilità dell’Atm e l’Atac di Roma dovrà sostenere l’assalto di 35 milioni di pellegrini per il Giubileo. Il 2025 sarà molto duro».

Senza sottovalutare la ritirata dalla provincia a favore delle auto private, che in Francia è stato uno degli inneschi per la rivolta dei gilet gialli, il fronte della crisi è sempre più caldo nei principali centri urbani. Per un meccanismo micidiale di aumento del costo della vita, provocato in parte dal turismo selvaggio e dall’emigrazione degli studenti verso i poli universitari più prestigiosi, in combinazione con la crescita complessiva delle presenze turistiche in qualunque giorno dell’anno, nelle grandi città le municipalizzate dei trasporti navigano in mari tempestosi.

Atm ha dovuto ridurre le corse sia per questioni finanziarie sia perché non trova più gli autisti che storicamente emigravano dal Mezzogiorno attirati da un salario netto medio rispettabile. I 1600 euro mensili che rappresentano la paga media attuale non attirano più nessuno da quando politiche immobiliari inesistenti e il dilagare degli affitti brevi hanno reso diseconomico un trasferimento al Nord. Il risultato è che Atm, punto di riferimento virtuoso del panorama nazionale con 118 km di metropolitana, ha dovuto tagliare le frequenze di 90 linee urbane su 130. In altre parole: meno conducenti, più tempi di attesa. Non basta il lavoro compensativo in termini di welfare, deciso dall’ad Arrigo Giana, che è arrivato sotto la Madonnina dopo esperienze nelle romane Cotral e Atac mentre il suo pari grado, il dg di Atac Alberto Zorzan, ha fatto il percorso inverso dalla direzione operativa dell’azienda milanese alla capitale.

Al posto delle case per i ferrovieri e per i tramvieri previste da un antico, sano e robusto assistenzialismo di Stato, oggi c’è la patente gratis e 1,5 milioni di euro di contributi per l’affitto ai 400 candidati, nella speranza di chiudere i buchi di organico entro il primo trimestre dell’anno prossimo.

È vero che i problemi a trovare personale per il servizio quotidiano non sono soltanto italiani. La International Road Transport Union (Iru) ha stimato nel 2023 che nelle grandi città d’Europa mancano 105 mila autisti per il tpl. Ma è difficile che gli incentivi messi in campo dai manager e dalla politica siano risolutivi in un contesto dove una stanza con bagno costa 900 euro al mese e lo squilibrio finanziario delle municipalizzate si calcola nell’ordine delle centinaia di milioni di euro. Per compensarlo non bastano i 5 miliardi del fondo nazionale dei trasporti, rifornito annualmente per coprire il disavanzo strutturale di Atac, Atm e delle loro sorelle minori, sebbene Lazio e Lombardia incassino una quota, proporzionale ai residenti, che supera il 29 per cento del fondo e sfiora 1,5 miliardi di euro complessivi. Così si taglia ancora.

L’ultimo colpo incombe sulla Metro C di Roma, incubo pluridecennale di ritardi ed extracosti. Nonostante l’allarme lanciato dal sindaco Roberto Gualtieri, una parte del governo vorrebbe inserire nella manovra una riduzione da 425 milioni di euro fra il 2025 e il 2032 sulla linea realizzata da Webuild, Vianini, Hitachi Rail, Cmc e Ccc e interamente finanziata da fondi pubblici del Mit, del Campidoglio e della Regione.

I minori investimenti si ripercuoterebbero sul segmento di tre nuove fermate che parte dalla Farnesina in direzione piazzale Clodio. Il vicepremier in quota forzista, il romano Antonio Tajani, ha espresso il suo disappunto moderato verso un’ipotesi che sarà avallata oppure bocciata da un’altra cittadina dell’Urbe, Giorgia Meloni. A questo punto, la parola passa agli ingegneri della finanza pubblica, quelli che rimodulano, compensano e, di solito, vanno a tagliuzzare da qualche altra parte nello stesso settore.

Del resto, Atac è stata risanata e portata fuori da un concordato preventivo avviato nel 2017 e chiuso nel dicembre 2022 con una cura lacrime e sangue che si è conclusa con un utile 2023 di 11 milioni di euro dopo 100 milioni di perdite aggregate nel triennio precedente, in parte influenzato dalla pandemia. Ma l’austerity non ha certo migliorato la precarietà del servizio anche riducendo gli assenteismi sistematici, i sabotaggi nei depositi, l’evasione dei biglietti e i due o tre scioperi mensili di qualche anno fa, spesso a cura di sigle sindacali escluse dalla contrattazione nazionale.

Roma vive il dramma di una rete vetusta e trascurata, di materiale rotabile primitivo, di mezzi di superficie che hanno fatto più volte l’equivalente del giro del mondo e che tendono all’autocombustione. L’assessore della giunta Gualtieri, l’avvocato Eugenio Patanè, ha da poco sciorinato una lista di investimenti imponente. Per il futuro ci saranno 962 bus di cui 489 elettrici, 43 treni per il servizio sotterraneo e 40 tram. Un autobus elettrico costa circa mezzo milione di euro. Quindi bisogna impegnare centinaia di milioni di euro a fronte di un contratto di servizio che prevede una copertura del bilancio Atac per due terzi con i fondi di Roma capitale e per un terzo con i ricavi del biglietto che nel 2025 salirà da 1,5 a 2 euro. Proprio il contratto di servizio in scadenza è un tema di battaglia politica con Italia Viva. In consiglio comunale il partito di Matteo Renzi ha chiesto una gara europea e, eventualmente, l’arrivo di una società di gestione straniera come è avvenuto a Firenze con Ratp. L’azienda controllata al 100 per cento dallo Stato francese gestisce i trasporti attraverso Autolinee toscane. Nove anni fa Ratp aveva tentato di prendersi la ferrovia Roma-Lido, via crucis giornaliera per i pendolari da e verso il litorale di Ostia, uno dei municipi di Roma.

La scelta di appoggiarsi ad altri gestori, magari non così ingombranti come il gigante parigino, è diventata inevitabile a Milano dove all’inizio di ottobre, e per la prima volta, Atm ha ceduto la linea urbana del bus 46 alla Stav di Vigevano con un contratto annuale.

La giunta milanese guidata da Beppe Sala destina al tpl oltre 1 miliardo di euro, pari a circa un terzo del bilancio comunale. I ricavi da biglietti sono di appena 388 milioni. In più, ci sono le partite straordinarie. La più clamorosa riguarda l’acquisto delle azioni della metropolitana M4, inaugurata il 12 ottobre 2024 in tutte le sue 21 fermate. Dieci mesi prima, nel dicembre del 2023, il Comune ha versato 228 milioni di euro per rilevare le quote di minoranza della linea blu e rimanere unico azionista. Circa due terzi della cifra sono andati a Webuild e Partecipazioni Italia, entrambe del gruppo di Pietro Salini. Il resto lo ha incassato Hitachi Rail, società con quattro sedi in Italia e controllo in Giappone che costruisce, fra l’altro, i Frecciarossa del gruppo Fs. «Regalo ai privati», hanno protestato i consiglieri dell’opposizione leghista, forse memori di quando Salvini era capogruppo dei Comunisti padani al parlamento della Padania (1997).

Lo slogan di Sala “reti pubbliche, gestione privata” è una presa d’atto delle condizioni di un mercato dove le imprese non intendono rischiare senza la totale copertura dell’Erario. Lo dimostra la gara europea per il prolungamento della Metro 1 verso Baggio, con tre nuove fermate per 500 milioni di euro, che è fallita lo scorso agosto perché l’unica offerta è stata dichiarata inammissibile. Lo stesso problema si è presentato pochi mesi prima con la gara per la linea 10 di Napoli verso la stazione Av di Afragola, un appalto da 1,8 miliardi di euro.

Se la periferia è poco attraente per gli investimenti, alla cintura suburbana non si avvicina nessuno. I sindaci dell’hinterland sud di Milano, nella zona dove Milan e Inter dicono di volere costruire i loro nuovi stadi, hanno invocato l’assunzione di autisti stranieri a imitazione dei medici cubani in Calabria e degli infermieri sudamericani in Sicilia.

All’abbandono del territorio, agli scioperi per il contratto, all’insicurezza, la grande politica risponde con i duelli personali. Salvini ha una dialettica accidentata con il sindaco Sala che, a sua volta, si scontra spesso per questioni di trasporto locale con la Regione presieduta dal leghista Attilio Fontana, azionista di maggioranza di Ferrovie Nord Milano (Fnm) e 50/50 nel capitale di Trenord assieme a Fs.

All’inizio dell’estate il leader della Lega ha lanciato l’idea di una fusione a tre fra Atm, Trenord e Fs, come ai tempi del concordato Atac si era ipotizzato di appioppare a Ferrovie la municipalizzata romana in crisi. Sala si è opposto al progetto che sfilerebbe al Comune un’azienda importante. Dalla prospettiva di chi lavora e di chi viaggia sui mezzi pubblici questi giochini sono percepiti poco e con fastidio. La crisi di tram e bus non si risolve con lo scambio di pacchetti azionari.