In “Caracas” di Marco D'Amore interpreta l’alter ego di Ermanno Rea, accompagnato per Napoli da un naziskin. Ma per l’attore feticcio di Sorrentino e Martone l’eredità dei padri costituenti è il rifiuto delle ideologie efferate. «Nella storia di questo Paese si ripropongono a fasi alterne con tutto il loro carico di inquietudine»

«Negli anni Cinquanta i giovani comunisti andavano nelle zone più diseredate delle città per far emancipare il proletariato, facendogli prendere coscienza dei propri diritti ed esortandolo a rivendicarli. Il mio Giordano Fonte è uno di quelli». Introduce con queste parole il suo nuovo personaggio Toni Servillo, protagonista con Marco D’Amore del suo nuovo film “Caracas”, appena uscito al cinema. L’attore feticcio di Paolo Sorrentino e Mario Martone, che finora ha saputo regalare al pubblico una galleria di ruoli memorabili, torna nei panni di uno scrittore dopo il successo del suo Luigi Pirandello in “La Stranezza” di Roberto Andò. Questa volta, però, interpreta l’alter ego di Ermanno Rea. Il film è tratto dal suo romanzo “Napoli Ferrovia”: «Nel libro è Rea stesso che si racconta, il nostro Giordano è lui».

 

Uno scrittore in cerca di cosa?
«Di sé stesso. O forse di niente. Sicuramente nel suo peregrinare è attratto dal guardare fino in fondo al pozzo malato di una città che ama e di cui si sente figlio».

 

Napoli, città sempre più raccontata tra piccolo e grande schermo.
«Eppure ancora sorprendente negli spunti che offre, da grande metropoli del Mediterraneo qual è. Assieme a “La dismissione” e a “Mistero napoletano”, “Napoli Ferrovia” costituisce una trilogia importante di Rea, autore capace di captare i frammenti della realtà in transito. Afferra segmenti di vita sulla carta per raccontare l’insieme di vicoli e slarghi che compongono la zona intorno alla ferrovia, la più disperata della città».

 

È lì che Giordano viene condotto, come in un viaggio negli inferi, da Caracas, un fascista deciso a convertirsi all’Islam.
«Rea dice di averlo conosciuto davvero, questo ex naziskin attratto dall’islamismo che per una sorta di fanatica ricerca della purezza si erge anche a paladino degli indifesi. Un grumo di contraddizioni che ha affascinato Rea, e dunque Giordano. Ho trovato particolarmente interessante l’incrocio di queste due esistenze, che più diverse non potrebbero essere. Un fascista con il debole per gli ultimi. E uno scrittore comunista, deluso ma non rancoroso, carico di una severità pietosa. Lui rincorre la realtà dei fatti e viene da una formazione ideologica di un certo tipo, eppure lo scopriamo anche governato da una profonda pietas verso un uomo che è agli antipodi rispetto a lui».

 

Marco D’Amore (a sinistra) e Toni Servillo in una scena del film “Caracas”

 

È un film di grande attualità, viste le recrudescenze fasciste in Italia, non trova?
«Quando il film è stato scritto e poi girato, queste recrudescenze non balzavano alla cronaca come sta accadendo adesso. Il fatto è che nella storia di questo Paese si ripropongono a fasi alterne con tutto il loro carico di inquietudine».

 

Le recrudescenze fasciste di oggi la preoccupano?
«Conosce qualcuno che non è preoccupato? Io mi sento un italiano che appartiene a una Repubblica la cui Costituzione è fondata sull’antifascismo e quindi tutti i rigurgiti di fascismo mi preoccupano moltissimo. Ho avuto la fortuna di ereditare dai padri costituenti questo pensiero preciso che dovrebbe mettere al riparo da recrudescenze di ideologie così efferate».

 

Il fanatismo nasce dalla disperazione e dalla voglia di sentirsi meno soli, come il film suggerisce?
«I migranti si aggregano per vincere la solitudine e lo sradicamento. Il fanatismo è una dimensione estrema da condannare, specie quando degenera in azioni violente, ma come si vede nel film quella chiesa di religione serve per confortare e aggregare».

 

Giordano è un ex militante, con il sogno di emancipazione della società. Sente che oggi quel sogno sia stato tradito?
«Non lo faccia dire a me, è con tutta evidenza Rea che lo dice».

 

Mi dica almeno se anche lei è stato militante da giovane.
«Ho sempre militato esclusivamente in gruppi teatrali, non politici».

 

Ma il teatro è anche luogo di militanza politica.
«È sicuramente così, ma sarebbe un discorso troppo lungo in cui addentrarsi. Torniamo al film».

 

Il suo Giordano viene definito «un combattente»: ritiene che sia questo il ruolo di un artista oggi?
«Lui senz’altro appartiene a quella generazione di scrittori che hanno cercato disperatamente di stare addosso alla realtà, per comprenderla e orientarla con forte impeto civile. La letteratura e l’arte devono sempre contenere un elemento di scandalo, un richiamo a voltare la testa su qualcosa su cui non avevamo mai riflettuto. L’arte ha sempre avuto la funzione di suggerire al pubblico con cui vuole dialogare un orientamento nell’esistenza».

 

Pensa che un fascista possa “convertirsi” attraverso la lettura di un grande libro o la visione di un film?
«Assolutamente, esistono tanti esempi di persone che devono alla lettura di un libro un cambio di passo radicale nella loro vita. Lo stesso Caracas, pur nella sua fanatica ricerca di purezza, tenta di cambiare e mettersi in discussione».

 

Sono temi che avete dibattuto con il regista e coprotagonista Marco D’Amore?
«Abbiamo avuto varie discussioni che arricchivano e approfondivano il lavoro sui nostri personaggi, ma il merito del film è tutto suo: lo ha scritto e diretto lui; e trovo lo abbia fatto con grande accuratezza. Io mi limito a osservare che raramente il mondo dell’estrema destra e quello islamico sono stati raccontati con tanta accuratezza nel cinema italiano».

 

D’Amore, tra l’altro, ha mosso i primi passi professionali proprio con lei.
«Era poco più che un adolescente quando partì con me per la gloriosa tournée in tutto il mondo della “Trilogia della villeggiatura” di Carlo Goldoni. Chi avrebbe detto che un giorno mi avrebbe diretto in un film di questa complessità tematica e con tale abilità registica di messa in scena… Credo che nelle sequenze tra Caracas e Giordano si veda un rapporto umano sincero, che va ben oltre quello professionale».

 

Chi è stato il suo Toni Servillo, il suo riferimento?
«Ho avuto diverse persone importanti nella mia formazione, a partire da quelle mai conosciute eppure studiate veramente a fondo come, su tutti, Louis Jouvet ed Eduardo De Filippo. Di sicuro Leo de Berardinis e Carlo Cecchi sono stati due miei grandi riferimenti, pur nella loro diversità. Ho anche avuto la fortuna di incontrare e imparare tanto da Cesare Garboli, di cui ho messo in scena “Tartufo” e “Misantropo” di Molière nella sua traduzione. Non posso non citare l’esperienza di Teatri Uniti: metterci con Mario Martone e gli altri e fare pezzi di strada importanti insieme confrontando reciprocamente le nostre capacità, e i nostri limiti, nell’avventura quotidiana del teatro è stato un grande insegnamento».

 

Che cosa sente di consigliare alle nuove generazioni di attori?
«Di mettersi insieme. Non stare da soli, ma camminare in gruppo. È essenziale nella formazione della personalità».

 

Matteo Garrone è candidato all’Oscar per il suo nuovo film “Io Capitano”. Che ricordi conserva di quando l’ha diretta in “Gomorra”?
«Ho avuto la fortuna di interpretare uno dei suoi film più belli, gli auguro tutto il successo che merita. Matteo gira personalmente i suoi film, è lui a muovere la macchina da presa, ricordo ancora l’eccitazione e la consapevolezza che stessimo raccontando “in diretta” qualcosa che riguardava non solo il territorio, ma più in generale la condizione umana. Per questo suo spirito universale, e non solo locale, e per la fattura notevole con cui è stato realizzato, “Gomorra” è già diventato meritatamente un classico del cinema italiano».