Lavoro molesto

La sentenza del Me too del cinema italiano che ha scoperchiato un "sistema"

di Simone Alliva   8 marzo 2024

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Il caso del regista Claudio Marini condannato a undici anni e nove mesi di carcere ha segnato un punto di svolta. Perché, tra lungaggini processuali e tentativi di vittimizzazione secondaria, il Tribunale ha riconosciuto che non c'era "consenso" da parte della attrici. Ma resta un vuoto nel codice penale

Fingeva di essere un regista e così adescava le giovanissime attrici, tutte tra i diciotto e i 22 anni. Con la scusa di un provino le portava nella sua abitazione: qui molestie e abusi. Il Me Too del cinema è un’onda lunga, durata due anni e mezzo di processo. Non si è ancora arrestata ma ha già avuto il pregio di scoperchiare "un sistema" e tessere una rete di sorellanza tra le vittime. Adesso, pubblicata la sentenza che condanna il regista Claudio Marini a undici anni e nove mesi di carcere, si apre una nuova era che parte dalla consapevolezza delle donne del mondo dello spettacolo dei loro diritti negati, delle molestie e di quelle violenze sessuali che restano ancora invisibili. 

Non senza inciampi: tra lungaggini processuali e tentativi d vittimizzazione secondaria («Lei era consenziente». «Non era mica la prima volta che faceva un provino del genere»). Ma con una novità: le attrici che lavorano con il corpo e per questo più esposte alla pretesa di metterlo a disposizione in modo improprio, questa volta sono state credute. Non c’era consenso. «In questo caso è stata scardinata quella cultura dello stupro che ci impedisce di credere subito alle vittime. È la prima volta che accade in questo ambito», racconta a L’Espresso Virginia Dascanio avvocata penalista che ha seguito tre delle donne offese: «La vittimizzazione secondaria tuttavia c’è stata ma non da parte degli operatori della giustizia che hanno dimostrato una preparazione e una competenza altissima e spesso rara nelle aule di Tribunale. Ma l'imputato ha usato i suoi diritti per allungare il processo (certificati medici, revoca dell'avvocato) a discapito di persone offese che vivevano nell’ansia». Un'odissea dove testimoni e vittime si presentavano ogni volta da Milano a Roma, non risarcite nell’immediato: viaggi in autobus estenuanti di persone in condizioni economiche precarie disposte comunque a dimostrare di aver subito la violenza. 

Quello messo su da Marini era sistema con un copione fisso, come hanno raccontato tutte le vittime ascoltate durante il processo: «Mi dice se farlo (il provino ndr) all'interno del McDonald's oppure nel suo ufficio. "Però calcola che se lo fai nel McDonald's la confusione non potrà rendere la tua parte magari così efficiente, mentre nello studio potrai essere più concentrata e quant'altro"». Si convince così la vittima a provare la parte nell'ufficio. Un'appartamento al piano terra di uno stabile e la porta direttamente sulla strada. Una cucina e un piccolo soggiorno con divano e nessun tecnico per le riprese e nessuna telecamera o luci o altra attrezzatura cinematografica. Il copione prevedeva baci, scene di nudo. Alla vittima che dimostrava scetticismo rispondeva «ma come ti permetti,  secondo te, se tu facessi una domanda del genere alla mia Accademia Hollywoodiana, i miei professori ti avrebbero preso a calci nel sedere e ti avrebbero cacciato». A chi si limitava a dare un bacio a stampo chiedeva più passione infilando «con forza la lingua in bocca facendole pressione sulla spalliera del divano, toccandola dapprima sulla coscia e poi sul seno». Un'altra vittima racconta invece l'abuso con penetrazione: il regista si spogliava, restando in boxer, e le saltava d'improvviso addosso, toccandola nelle parti intime e, infine, penetrandola. La persona offesa ha precisato di non essere stata in alcun modo consenziente e che aveva chiesto di fermarsi, ma lui aveva detto «non puoi dirmi basta adesso».

Non è stato facile dimostrare in Tribunale l'assenza di consenso:  «Le ragazze erano da sole, non c’era nessuno in stanza con lui, e stavano facendo un provino. Facile dire: lui non ha abusato di te, tu ti sei spogliata e hai fatto questa parte della scena. Ma non esisteva il casting, tutto l’impianto dietro non esisteva. Questi casting erano mirati per abusare di queste ragazze».

L’imputato si era avvalso di una situazione di affidamento ed aveva strumentalizzato la propria professionalità per carpire l’iniziale fiducia delle ragazze. Comprensibilmente, le ragazze giovani, inesperte e anche desiderose di ottenere il lavoro, volevano riuscire bene nell’intento, quindi nel momento in cui è arrivata la parte del bacio si sono sentite a disagio e poco serene, ma temevano che il rifiuto di tali comportamenti potesse essere utilizzato per prendere una decisione su di loro negativa riguardo alla loro prova attoriale, al loro valore come attrici, alla loro dote professionale. Si tratta di un ricatto sessuale. Se la persona acconsente perché si sente obbligata per qualsiasi ragione, allora non si tratta di consenso.

La questione del consenso è difficile da dimostrare per la giurisprudenza. Anche per ragioni culturali. Ci sono sentenze recenti che hanno immortalato un tempo che sembrava scivolato via: la colpa era di chi aveva subito la violenza perché aveva provocato, come il caso del un bidello di un istituto scolastico della capitale finito sotto processo per l'accusa di violenza sessuale per avere toccato una studentessa nell'aprile 2022. Assolto perché per il tribunale il toccamento, durato "tra i 5 e i 10 secondi", è da considerarsi "quasi uno sfioramento", è avvenuto ma senza la volontà di molestare la minorenne. Oppure quella di Torino che nel 2017 ha assolto dalla accusa di violenza sessuale un operatore della Croce Rossa, denunciato da una collega per  abusi sul luogo di lavoro. Disse “basta” ma non urlò.  Nel Codice penale inoltre la parola “consenso” è assente per la violenza sessuale. Non prevista come ha spiegato a L'Espresso Paola Di Nicola Travaglini, giudice della Corte di Cassazione già consulente giuridica della Commissione parlamentare sul femminicidio «Nel senso che è vista solo dalla parte dell’autore. La condotta della violenza sessuale è centrata sull’autore che commette un atto minaccioso violento o induttivo. Ed è curioso perché invece nella violazione del domicilio (Articolo 614 Codice Penale) è ribaltato, qui il centro della norma è la volontà della vittima: “Chiunque s'introduce nell'abitazione altrui […] contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo […] è punito”. Questo è molto interessante perché proprio in relazione ad un delitto quale la violenza sessuale, in cui l’elemento cruciale è la volontà della vittima, ci si sposta sull’autore. E in un altro reato, di minore gravità, è la volontà che viene declinata».

Non una questione marginale dunque, come spiega Dascanio: «In questo ambiente le violenze sono perpetrate soprattutto dai registi, se vedi i dati dell’osservatorio, le stime ci indicano una percentuale del 46,26% e il provino resta il momento in cui si concentra la maggior parte degli atti di violenza. Questo ha molto a che fare con lo stesso lavoro attoriale:  prevede un’esposizione fisica, a un’attrice è normale che le venga chiesto per lavoro di spogliarsi, di farsi toccare, di baciare. Ad un’attrice è richiesto di essere aperta a tutte le esperienze e che non abbia blocchi. L’attrice deve essere disinibita. Infatti, quando le ragazze hanno iniziato a lamentare l’ambiguità della situazione, il Marini ha fatto leva sulle doti professionali manipolando il convincimento». Il caso Marini parte da un collettivo transfemminista di attrici professioniste che ha l’obiettivo di evidenziare e contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo dal vivo, Amleta: «Dopo tre anni dalla prima segnalazione giunta ad Amleta siamo arrivate ad una sentenza che riconosce il ruolo degli stereotipi che pesano sulle attrici e che fino ad ora spesso non hanno permesso di riconoscere la violenza esercitata sui nostri corpi in una condizione di sproporzione di potere come quella di questo e di tutti gli altri casi».