Il caso
L'assurda storia della taverna in cui si è decisa l'Unità d'Italia. Tra abusi edilizi e carte bollate
Il luogo in cui si incontrarono Garibaldi e Vittorio Emanuele II, a Vairano Scalo e non a Teano, è da decenni al centro di una battaglia legale. Il Comune vorrebbe ora trasformarla in un museo del Risorgimento, ma servono i soldi dal Ministero della Cultura
Rispetto per la bandiera, innanzitutto. «Le radici della nostra bandiera sembrano spesso dimenticate, soprattutto quando viene esposta senza cura, in condizioni che non rendono onore alla storia d’Italia». Ragion per cui chi ha l’obbligo di issare il tricolore sulla facciata, ma lo espone sporco o malandato, rischierà una multa fino a 5 mila euro. Lo prevede una proposta di legge di 24 deputati di Fratelli d’Italia che ha appena iniziato l’iter alla Camera. Primo firmatario, Marco Padovani da Verona.
A lui e agli altri 23 così impegnati nella difesa del simbolo dell’unità nazionale, fra i quali il presidente della commissione Cultura, Federico Mollicone, suggeriamo una visita in un paese del Casertano di 6.500 anime. Per vedere come è ridotto non un tricolore, ma il posto dov’è nata di fatto l’Italia unita. Il paese è Vairano Patenora. Nell’abitato di Vairano Scalo – frazione così denominata per via della stazione ferroviaria che si snoda lungo un tratto della via Casilina, imprigionato in mattoni e cemento senza troppi riguardi per l’estetica pubblica – c’è quella che era un tempo una vecchia taverna, ora pressoché irriconoscibile. Si trova alla fine della strada che arriva dal Molise per incrociare la Casilina, nel «quadrivio di Caianello», come lo definivano le mappe di un secolo e mezzo fa. Proprio nel punto dove Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II si incontrarono il 26 ottobre del 1860. Passato alla storia recente come l’incontro di Teano, il posto effettivo del primo vagito dell’atto fondante dell’unità nazionale è stato a lungo oggetto di dispute campaniliste. Con risvolti assurdi e talvolta decisamente comici, in un Paese che, come detto, quasi non conosce il giorno della propria nascita. Un giorno del 1987 il Comune di Teano inviò una vibrante nota di protesta alla Rai perché lo sceneggiato televisivo “Il generale”, ispirato a Garibaldi, aveva osato collocare l’incontro a Vairano anziché a Teano. Per anni, poi, il 26 ottobre si sono tenute celebrazioni distinte a Teano e a Vairano. E nemmeno la definitiva sentenza storica pronunciata a favore di Vairano in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia dal comitato per le celebrazioni, presieduto da Giuliano Amato, e ratificata nientemeno che dalla Treccani, ha messo fine a una vicenda surreale.
Sebbene non ci fosse un verbale di quell’incontro, i documenti dell’esercito e le testimonianze hanno sempre concordato sul luogo in cui avvenne: la Taverna della Catena di Vairano Scalo. Garibaldi e Vittorio Emanuele II avrebbero poi cavalcato insieme per i pochi chilometri (una decina) che separano il luogo dell’incontro da Teano, dove sarebbero stati accolti dalla popolazione. Una lapide messa in piazza a Teano all’inizio del secolo scorso confermava questa versione. Ma negli anni Trenta venne “sbianchettata”, eliminando ogni riferimento al rendez-vous avvenuto al «quadrivio di Caianello». Il podestà locale, a quanto pare, era potentissimo nel Partito fascista. Così potente, dicono, da influenzare addirittura la storia.
Passato il regime, però, la verità torna a galla. E nel 1967 la vecchia taverna, accanto alla quale era addossata una minuscola caserma dei carabinieri dove transitò Antonio Gramsci nel viaggio verso il carcere di Turi, viene vincolata perché, testuale, «elemento dominante del quadro naturale sulla scena nella quale si svolse lo storico incontro con cui si concluse il processo unitario del Risorgimento nazionale tra Vittorio Emanuele II e il generale Giuseppe Garibaldi». Il decreto di vincolo è del ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Gui: nel 1967 il ministero dei Beni culturali ancora non esisteva.
Da quel momento, alla faccia del vincolo ministeriale, comincia un’incredibile vicenda che si trascina da più di mezzo secolo in un delirio di carte bollate. Ancora oggi, nel giugno 2024, senza una soluzione né rispetto per ciò che significa quel luogo. Nel 1969 i proprietari della ex taverna, una famiglia numerosa che avrà fra i componenti anche una medaglia d’oro olimpica di canottaggio e un assessore del rivale Comune di Teano, chiedono e ottengono dalla Soprintendenza il permesso di ristrutturarla. È l’epoca d’oro dell’edilizia fai da te, che a Vairano Scalo lascerà segni indelebili. Ma l’anno seguente la stessa Soprintendenza nega il nulla osta. I lavori però vanno avanti ugualmente ed ecco comparire sulla ex taverna una grande sopraelevazione completamente abusiva. Parte quindi una denuncia penale che sfocia ovviamente in una condanna. E nel 1984 il Comune intima ai proprietari la demolizione delle opere abusive. Allora i proprietari fanno ricorso al Tar, ma nel frattempo spunta il provvidenziale condono edilizio del governo di Bettino Craxi. E sorprendentemente la Soprintendenza dà parere favorevole, ponendo come unica condizione che le finestre tonde diventino quadrate. Il Comune non ci sta e fa a sua volta ricorso al Tar: come si può condonare l’abuso edilizio su un immobile con vincolo storico? Poi rigetta la richiesta di condono.
Stavolta sono i proprietari che non ci stanno e ricorrono al Tar, che nel 1993 accoglie il ricorso. Così riparte tutto daccapo. Lo scontro misurabile in metri cubi di atti giudiziari va avanti ancora quasi vent’anni finché nel 2010 arriva una seconda ordinanza di demolizione. E siccome non viene eseguita, l’amministrazione del sindaco Bartolomeo Cantelmo nel 2014 fa una mossa clamorosa: trasferisce la proprietà dell’immobile abusivo non demolito a patrimonio comunale. Come prevede la legge. Il piano, cullato da anni, è realizzare un piccolo museo del Risorgimento, ma i proprietari fanno ancora una volta ricorso. E il Tar dà loro ragione, con la motivazione che fra cause, ricorsi e controricorsi la domanda di condono non è mai stata completamente definita. Corre l’anno 2015 e al Comune resta solo il Consiglio di Stato. Dove si stabilisce un nuovo record. Per decidere, i giudici impiegano la bellezza di sette anni. Dal 2015 al 2022. Con una sentenza favorevole ai proprietari.
Così deve finire? Nemmeno per sogno, pensa il nuovo sindaco Stanislao Supino, che per dieci anni ha affiancato il suo predecessore Cantelmo nella infinita battaglia per restituire quel pezzo di storia alla memoria collettiva. Combattuta, anziché dallo Stato centrale, come sarebbe stato doveroso, da un pugno di amministratori di un piccolo Comune del Casertano e da pochi loro sostenitori. Spesso trovandosi perfino contro le istituzioni del medesimo Stato centrale.
La verità è che una soluzione ci sarebbe stata fin dall’inizio. È l’esproprio per ragioni di pubblica utilità. Ci volevano però i soldi. Il Comune non li ha. Né si è fatto avanti qualcuno disposto a tirarli fuori. D’altra parte nemmeno i proprietari, assai numerosi, hanno mai mostrato interesse per il valore storico dell’immobile. La Regione Campania, al tempo di Stefano Caldoro, aveva sì promesso un milioncino, ma come contributo per l’eventuale museo, non per l’esproprio. Quanto al ministero della Cultura, non pervenuto. Almeno finora. Ma adesso il Comune ha deciso di metterlo davanti alle proprie responsabilità. Ha fatto un progetto e aspetta dal ministro Gennaro Sangiuliano una risposta sul suo finanziamento.
Per l’esproprio e la ristrutturazione dell’immobile da adibire a museo ci vogliono 7 milioni. Per l’esattezza 6 milioni 887 mila 983 euro e 34 centesimi, c’è scritto nella relazione che accompagna il progetto. Ossia una somma, per avere un termine di paragone, pari all’uno per cento di quanto si spende ogni anno (700 milioni) per le sagre paesane, dalla castagna roscetta al fusillo orsomarsese. Se non ora, quando?