Le indagini sulla strage di via D'Amelio sono state piene di depistaggi, insabbiamenti, errori. Per troppo tempo ci si è concentrati su quello che il magistrato aveva già fatto e non su quello su cui stava indagando

Ciò che si sa, in definitiva, non è molto di più di quel che si immaginava 32 anni fa: nel Palazzo era la chiave per comprendere le ragioni della strage di via D’Amelio. E ciò che si è scoperto finora, distillando gocce di verità tra le nebbie di una palude istituzionale impenetrabile, risponde ancora soltanto ad alcuni “come” e a nessun vero “perché”. Il fatto è che ci si è concentrati su quel che il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino aveva già fatto, sposando l’accomodante, fragile, tesi della vendetta mafiosa, volendo non occuparsi di quanto avrebbe potuto ancora fare. Altrimenti sarebbe balzata agli occhi l’evidenza di una strage preventiva. I punti fermi sono pochi ma essenziali. Il 19 luglio del 1992 Cosa nostra, questo sembra pacifico, realizza l’attentato in cui muore il magistrato a cui fino a quella mattina il suo capo, Pietro Giammanco, ha impedito di indagare su Palermo. Alla buon’ora di quella domenica mattina Giammanco concede un obliquo via libera telefonico. Di cui nessuno ha mai trovato il tempo di chiedergli spiegazione.

 

Di atti mancati, del resto questa storia è piena. Non è un mistero: Borsellino sa di poter contribuire all’inchiesta sulla strage del 23 maggio del 1992 in cui è morto il suo amico e collega Giovanni Falcone. Eppure, in quei 57 giorni la procura di Caltanissetta non lo convoca. E nessuno prova a chiederne conto al capo di quell’ufficio, Giovanni Tinebra. Che d’altro canto consegna le chiavi delle indagini su entrambe le stragi ad Arnaldo La Barbera, ovvero al capo della Mobile che per Falcone non ha ritenuto necessari gli spostamenti in elicottero da e per Punta Raisi e per Borsellino non ha provveduto a far bonificare i luoghi, non tanti, abitualmente frequentati dal magistrato. Anche su questo nessuno proverà a chiedere spiegazioni a La Barbera.

 

Con l’investigatore – che si scoprirà poi a libro paga dei Servizi – lavora anche il Sisde di Bruno Contrada, coinvolto da Tinebra, nonostante i divieti di legge, perché così vuole a Roma anche il capo della Polizia, Vincenzo Parisi. E anche su questo coinvolgimento nessuno ha mai chiesto spiegazioni. Da via D’Amelio scompare l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Sta in una borsa che dopo vari e vaghi passaggi di mano, finisce dimenticata, vuota nella stanza di La Barbera.

 

Quest’ultimo ha pronto all’uso un falso pentito, Vincenzo Scarantino che gli consegna un organigramma della strage che carica la responsabilità su una cosca, la Guadagna e risparmia nei fatti quella di Brancaccio dei fratelli Graviano e dell’ala dura dei corleonesi di Riina.

 

In questo modo l’inchiesta viene fatta deragliare ad arte. Da La Barbera e dai suoi, sotto il naso di magistrati che non vedono, non sentono e non capiscono. E quando, come Ilda Boccassini, nutrono dubbi su Scarantino, lo scrivono a futura memoria ma ad uso interno. Il «più grave depistaggio della storia» porta intanto 11 innocenti in galera, otto per strage, liberati solo quando, dopo il 2008, si sarà disposti a dare credito al pentito stragista Gaspare Spatuzza che smentisce Scarantino e offre un quadro militare aggiornato dei partecipanti alla strage. Con le omissioni, insomma, si consuma una parte della rimozione nella sostanziale indifferenza della politica e dei governi degli ultimi trent’anni che la famiglia del magistrato adesso chiama in causa. Con il depistaggio si offre una soluzione modellata ad arte. E qui si torna al punto: perché? A cosa lavorava Paolo Borsellino?

Ai giornalisti francesi venuti a intervistarlo racconta dell’indagine sullo stalliere Vittorio Mangano e dei traffici di droga del fratello di Marcello Dell’Utri, ben sapendo che quest’ultimo lavorava già con Silvio Berlusconi. E lo incuriosisce anche l’accusa di Falcone che nel 1991 aveva detto che la mafia era entrata in Borsa. Alludeva alla rete d’affari che alcuni mafioimprenditori siciliani avevano avviato con i colossi delle società italiane. Tra queste c’è la Calcestruzzi di Ravenna, gruppo Ferruzzi che in Sicilia operava con una sorta di franchising consegnando il marchio alla famiglia Buscemi di Passo di Rigano. Entra anche questo clan nell’informativa mafia e appalti che Borsellino riprende in mano dopo la morte di Falcone. E che il suo capo liquida come inutile. Racconta di mafia ma soprattutto di affari e di politica. Chiama in causa il gotha della Dc dell’epoca.

 

Giammanco, La Barbera, Tinebra sono morti. Oggi Caltanissetta indaga ancora e grazie alla tenacia di Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, sta percorrendo la pista del dossier mafia e appalti. Accanto alla rivisitazione di ogni frammento del depistaggio. Dopo le prescrizioni per due poliziotti e l’assoluzione di un terzo, altri quattro sono sotto indagine.

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Ma è su mafia e appalti, sull’insabbiamento, che si è concentrato il lavoro più recente. La distruzione delle intercettazioni del dossier ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di un ex magistrato del pool della Procura, Gioacchino Natoli che lavorò con Falcone e del generale Stefano Screpanti che al Gico di Palermo si occupò dei Buscemi. Iscrizioni tecniche per capire chi manovrò e perché quel dossier che tanto incuriosiva Borsellino era stato sbrigativamente accantonato. Nel Palazzo.