Intervista

Filippo Spiezia: «Con la separazione delle carriere rischiamo di avere un pm super-poliziotto»

di Giusy Franzese   23 luglio 2024

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Né con l’Anm né con il governo. Della riforma Nordio, il procuratore capo di Firenze, Filippo Spiezia, boccia la distinzione tra magistrati inquirenti e giudicanti. Ma salva il sorteggio per il Csm per contrastare lo strapotere delle correnti

Alla domanda «in sintesi e con poche parole come definirebbe la sua posizione?» risponde senza esitazioni: «Non del tutto allineata con l’Associazione nazionale magistrati e non sovrapponibile a quella del governo». Per Filippo Spiezia, attuale capo della Procura di Firenze, dove è approdato dopo varie importanti esperienze anche internazionali (da ultimo, la vicepresidenza di Eurojust, la struttura di cooperazione giudiziaria dell’Unione europea), la riforma della giustizia targata Nordio presenta ombre, ma anche alcune luci. Vede dei rischi, ad esempio, derivanti dalla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati giudicanti, ma condivide la modalità del sorteggio per la nomina dei membri del Consiglio superiore della Magistratura, ritenendola una soluzione positiva per contrastare il potere delle correnti all’interno della categoria.

 

La riforma della giustizia messa a punto dal ministro Carlo Nordio ha da subito creato due opposte fazioni. Da una parte c’è l’Anm che ha alzato le barricate, parla di «sconfitta della giustizia» e accusa il governo di «messaggi intimidatori» verso la categoria e di voler mettere le briglie ai pm. Dall’altra ci sono gli avvocati penalisti che considerano indispensabile, invece, la separazione delle carriere per dare armi pari ad accusa e difesa durante il processo. Lei come pubblico ministero si sente minacciato da questa riforma e in particolare dalla separazione delle carriere?
«La proposta di separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti è, a mio avviso, non più attuale, per certi versi tardiva, rispetto al cambiamento epocale avviato nel 1989 con la introduzione del rito accusatorio nel nostro processo. In altri termini, è lecito chiedersi se siano ancora attuali le esigenze che tenderebbe a soddisfare, tenuto conto delle significative evoluzioni che ha conosciuto il nostro sistema processuale e ordinamentale. Quest’ultimo, per effetto della riforma Cartabia, ha già subito importanti modifiche. Inoltre il pm ha cambiato pelle anche sul piano processuale».

 

Filippo Spiezia

 

Per i non addetti ai lavori, ci fa qualche esempio?
«Nel nuovo perimetro del procedimento investigativo ridisegnato dal legislatore, ad esempio, il pubblico ministero dovrà procedere, all’esito delle indagini, non più ad astratte verifiche di praticabilità dell’azione penale in vista del dibattimento, ma a un’attenta selezione delle sue scelte finali. L’approdo alla fase dibattimentale è giustificato solo per le imputazioni per le quali si profila un probabile esito di condanna. In un certo senso, il pm diventa il primo giudice per l’accusato. Il pm, già da tempo, deve ricercare anche le prove a favore dell’indagato. Sul piano ordinamentale, poi, tra le modifiche già operanti si prevede una unica possibilità, in tutta la vita lavorativa di un magistrato, di passaggio di funzione da inquirente a giudicante o viceversa. Una sola volta e in un ambito territoriale differente da quello dove si è lavorato negli ultimi anni. Potremmo dire, quindi, che oggi pubblici ministeri e giudicanti sono già separati non solo di fatto, ma di diritto».

 

I penalisti, però, dicono che non basta, che ancora adesso il pm nelle aule dei tribunali è avvantaggiato rispetto agli avvocati. Sostengono che la colleganza spesso porta i giudici ad avere un occhio di riguardo rispetto alle tesi dei pm, i quali entrano ed escono dalle stanze del giudice senza anticamere esercitando un’inopportuna moral suasion e minando così il principio della terzietà del giudice.
«L’alto numero di sentenze riformate in appello e il 40% di assoluzioni dicono che i giudici italiani hanno dato ampia prova di terzietà e non si allineano alle richieste dei pm per il solo fatto di appartenere alla stessa carriera dei pubblici ministeri. Detto ciò, considero ineccepibile il principio che il pm debba “bussare” alla porta del giudice esattamente come fa l’avvocato difensore. Non ci deve essere nessun trattamento preferenziale rispetto alle richieste della pubblica accusa. Ma la soluzione che si prospetta non è appropriata.  Anzi, potrebbe sortire l’effetto contrario».

 

Luca Palamara

 

In che senso?
«Oggi, nella delicata fase delle indagini preliminari, il giudice ha accresciuti poteri di controllo sulle iniziative investigative del pubblico ministero, sia preventivi – intercettazioni, tabulati telefonici – sia successivi; penso, tra l’altro, al riesame sull’oggetto e sulla motivazione dei sequestri probatori e delle perquisizioni. Il giudice può intervenire persino sulla scelta fondamentale di determinazione della vicenda investigativa con i controlli sulla tempestività dell’iscrizione della notizia di reato e della puntualizzazione della sua stessa definizione. È dunque cambiato il volto delle indagini preliminari come introdotto dal Codice Vassalli. Con la separazione delle carriere, intravedo il concreto rischio che un pm, completamente sganciato dalla comune carriera con i giudici, possa diventare una sorta di super-poliziotto. Stiamo creando le premesse per un magistrato della pubblica accusa molto autoreferenziale, preoccupato, ad esempio, più dalle statistiche sugli arresti operati che dal rispetto delle esigenze dell’indagato e dei suoi diritti fondamentali. È questo il vero pericolo».

 

Insomma, secondo lei il rimedio rischia di essere peggiore del male?
«Credo che il vero rimedio alle lamentate scorrettezze deontologiche non sia separare, ma bensì coinvolgere sempre più, in una formazione comune, tutti gli attori del processo. Non può esserci una formazione diversa tra chi raccoglie le prove e chi deve giudicare. Una formazione che ponga al centro dei suoi percorsi il rispetto della terzietà del giudice e il tema delle garanzie delle persone coinvolte, e di cui anche gli avvocati dovrebbero essere parte integrante».

 

L’Anm pone l’accento sulle probabili interferenze e ingerenze dell’esecutivo nei confronti dei pm.
«Io su questa affermazione sarei più cauto. Il principio dell’indipendenza della magistratura è irreversibile, come ha ricordato anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E comunque a me sembra che la proposta di riforma non lo tocchi».

 

La riforma prevede due Csm differenti, uno per i giudici e uno per i pm. E anche su questo punto sono moltissime le critiche e le perplessità. Lei che cosa ne pensa?
«È una scelta che comprendo poco. La macchina giudiziaria non va vista a compartimenti stagni. Il procedimento penale è unitario, sia pure scandito da varie fasi, l’una non può prescindere dall’altra, alla fine tutto si tiene, anche dal punto di vista ordinamentale. Un Csm unitario, come ora, assicura una valutazione globale, di sistema. Invece apprezzo, a proposito di Csm, la scelta di nominarne i membri attraverso sorteggio. Una modalità che depotenzia le correnti della magistratura con riguardo agli aspetti patologici che la realtà ha tristemente messo a nudo, preservandone, invece, quelli virtuosi, come quelli di luogo privilegiato per lo scambio e di aggregazione di idee ed esperienze tra magistrati».

 

La vicenda di Luca Palamara non è servita a mettere un freno allo strapotere delle correnti?
«Quando il criterio dell’appartenenza a una corrente diventa il fattore determinante per la carriera di un magistrato a scapito delle valutazioni di merito, allora questo è inaccettabile. Mina il principio della responsabilità e della trasparenza e penalizza i magistrati che fanno con indipendenza e senza condizionamenti il loro lavoro. Gli esiti della vicenda Palamara che si concentrano sulle responsabilità di un solo attore non mi persuadono. Ben venga quindi il sorteggio. Credo che sul punto una riforma sia necessaria».

 

Carlo Nordio

 

Oltre alla proposta di riforma costituzionale, in materia di giustizia è stata appena approvata la legge che di fatto abolisce l’abuso di ufficio. Crede che questo possa far riesplodere la corruzione tra i pubblici dipendenti?
«La corruzione non riesploderà, semplicemente perché non si è mai spenta. L’abuso di ufficio riguarda altre fattispecie di reato, anche se fa parte del microsistema di norme che tutelano l’imparzialità e la trasparenza della pubblica amministrazione. Certamente è ritenuto una sorta di “reato spia”, ma un bravo pm potrebbe comunque riuscire ad accertare i casi di corruzione pur non potendo contare sugli elementi sintomatici di un rapporto collusivo emergenti dall’abuso di funzioni pubbliche. Il punto è un altro: con l’abrogazione dell’abuso di ufficio cade un importante baluardo di legalità, un presidio della democrazia che consentiva ai cittadini di denunciare comportamenti scorretti da parte dei pubblici funzionari. Comportamenti che magari non consistono in tangenti e corruzione, ma che comunque ledono i diritti dei cittadini. Le faccio un paio di esempi: il funzionario che abusa del suo potere e fa assumere senza passare per un concorso un parente, l’amico, l’amante; oppure il funzionario che, pur verificando che tutte le carte sono in regola, nega un permesso a costruire per danneggiare un cittadino che ne ha diritto. Ecco, in questi casi con la nuova legge non si potrà più intervenire».

 

Le statistiche, però, sono impietose: oltre l’80% dei procedimenti avviati per abuso di ufficio finisce con l’archiviazione e solo nello 0,4% dei casi (dati 2022) si è arrivati a una condanna. Nel frattempo, la vita professionale e privata di un dipendente pubblico accusato di abuso di ufficio viene stravolta. Non crede che fosse necessario intervenire?
«In seguito alle recenti modifiche legislative intervenute sull’abuso di ufficio, la norma non era più vaga come un tempo, contrariamente a quanto si assume. Essa richiedeva la violazione di specifica norma di legge e un danno o un vantaggio ingiusto, intenzionalmente arrecato. Ma, attenzione, è dal 2020 che non è più possibile sindacare le scelte discrezionali della pubblica amministrazione con il reato di abuso d’ufficio. Veniva usato come una clava da alcuni pm? Se anche fosse vero, non ha senso abolire l’abuso di ufficio per limitare eventuali abusi da parte di magistrati non corretti. In questo caso bisognava intervenire sulla responsabilità individuale. Così, invece, ci rimettono solo i cittadini onesti e si perde un baluardo fondamentale contro gli abusi collegati all’esercizio di pubbliche funzioni, quand’anche commessi da un magistrato. Non a caso anche l’Unione europea, con la recente direttiva in materia di corruzione, ce lo ricorda. L’articolo 11 (Abuse of functions) impone agli Stati membri di prendere le misure necessarie affinché tali condotte, ove intenzionali, siano punibili come reati».