Uno straniero a Parigi
Sconfitti, umiliati e feriti: i campioni invisibili di queste Olimpiadi
Due pugili, due storie di dolore e riscatto: Ato Plodzicki Faogali che perde il suo coach a poche ore dall'incontro ma sale sul ring col passo da gigante. E Wasim Abusal che può gridare al mondo che combatte a nome di tutti quelli che a casa in Palestina non hanno più nulla, neppure una voce
Partecipare è importante. Anzi, partecipare è la cosa più importante. Poche ore dopo la chiusura della cerimonia inaugurale dei Giochi, per circa il 70% di quelli che avevano sfilato sulla Senna esausti di gioia, l’Olimpiade era già finita. Il proiettile di pistola caduto a un centimetro dal bersaglio, basta per estrometterti dalla storia. Una manciata di centesimi di ritardo in acqua, sono buoni per farti tornare in stanza a preparare la valigia in anticipo. L’Olimpiade è una suggestione breve e irresistibile. Renderla eterna non è da tutti.
Certo, nessuno potrà toglierti quell’emozione indicibile di avercela fatta, di essere arrivati fino a quel punto anche se oggi - mentre gli altri si battono per un podio - tu sei già in giro per Champs Elysee come un turista qualsiasi senza che nessuno ti chieda neppure un autografo.
L’Olimpiade è questa roba qua, ed è proprio in questa piega che si nasconde la sua grandezza. Le medaglie, gli sponsor milionari, i record che vanno in frantumi, sono solo la réclame.
I Giochi veri sono quelli di Ato Plodzicki Faogali, pugile proveniente da Siuma, piccolo villaggio dell’isola di Upolu, un paradiso nei mari del sud. Da piccolo sognava il rugby, ma era dura trovare abbastanza ragazzini per fare due squadre. Si è appassionato alla boxe, ha imparato la disciplina da papà Steven, immigrato dall’Australia, la tenacia da mamma Monica, richiedente asilo dalla Polonia. E ha fatto strada cominciando a vincere tornei, fino a qualificarsi per i Giochi di Tokio. Poi di nuovo, Parigi. Nella sua categoria, i 92kg, non si può dire sia un contendente al titolo. Davanti a lui ce n’è parecchi più forti. Ma le graduatorie servono a farvi capire a che punto siete, non chi siete.
Su quel battello lungo la Senna, in compagnia del suo coach di tanti anni, Lionel Fatapaito, non c’era niente che potesse togliere ad Ato il diritto di sentirsi felice ed orgoglioso almeno quanto Lebron James.
Quando Ato e Lionel sono tornati al Villaggio, erano stremati ed euforici. Hanno anche parlato del match che Ato avrebbe dovuto affrontare di lì a 36 ore contro un colosso belga di nome Victor Schelstraete. Il tecnico Lionel si è addormentato sussurrando le ennesime raccomandazioni ad Ato. Quando ha chiuso gli occhi però non li ha più riaperti. Morte istantanea per infarto.
In quel momento è scattato il panico e Ato si è trovato sperduto in quel mare di angoscia, costretto ad affrontare una tempesta più grande di lui. A 24 ore dal match d’esordio non aveva più un coach e neppure un obiettivo. Come di può gareggiare in quelle condizioni?
Allora sono accorsi i neozelandesi che hanno chiamato quelli di Papua che conoscevano un coach australiano che forse poteva dare una mano, Peter Morrison. Peter non ci ha pensato due volte, anche se l’ostacolo più grande era capire cosa Ato avesse in corpo.
Alle quattro del pomeriggio di ieri, Ato ha mostrato al mondo come nella vita le graduatorie siano inutili. È salito sul ring con il passo di un gigante e ha fatto vedere a tutti l’uomo che è diventato. Victor il belga lo ha dominato dall’inizio alla fine, poi è corso ad abbracciarlo emozionato: “Tu sei il vero vincitore, io non ce l’avrei mai fatta. Hai reso onore a te stesso, al tuo coach e questo sport”.
Il senso di questo baraccone immenso chiamato Olimpiade è tutto lì, nelle lacrime che Ato versa senza ritegno di fronte ai tre cronisti che si sono dati la pena di aspettarlo, dopo che gli hanno dovuto rattoppare uno zigomo alla meno peggio.
“Avevo pensato di ritirarmi, poi ho pensato che dovevo vincere una medaglia, poi ho smesso di pensare e sono salito sul ring per dare tutto. Così è stato. Ma della medaglia adesso non m’importa nulla”.
Alle sue spalle transita veloce un altro sconfitto di giornata, gli stringe la mano con rispetto, si chiama Wasim Abusal, si è preparato per questi Giochi a Ramallah, il coach collegato via zoom dall’Egitto, una palestra che cade a pezzi dove ha fatto sparring solo con pugili il doppio di lui. Ha preso un sacco di botte contro uno svedese nero di nome Ibrahim Nabil. Ma è contento perché ha una telecamera davanti e un microfono dentro al quale gridare al mondo che tornerà alla prossima Olimpiade e che lo farà a nome di tutti quelli che a casa in Palestina non hanno più nulla, neppure una voce con cui gridare. Tra pochi giorni Ato e Wasim ce li saremo dimenticati. Ma a loro è bastato poco per rendere questa partecipazione eterna.