La lezione della scrittrice scomparsa un anno fa ci insegna che tutta la discussione sul diritto di cittadinanza portata avanti dalla politica è legata ai nazionalismi. Quello che serve è una nuova categoria, che sconfigga alla radice il maschilismo strettamente legato al concetto di patriottismo e che ci porti a riconoscere la ricchezza nella diversità

Per il PD quella dello Ius Soli, cioè il ddl sulla cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia, è sempre stata una “legge di civiltà”. E infatti nel 2017 prima la rinviò («Tenendo conto delle scadenze non rinviabili non ritengo ci siano le condizioni», disse l'allora premier Paolo Gentiloni) poi la lasciò morire a poche ore dallo scioglimento delle Camere. 

 

Era un altro tempo, un altro PD. Va detto. Sul tavolino del Nazareno c'erano i sondaggi Ipsos inequivocabili: "Ius Soli: la maggioranza degli italiani è contraria. Nel 2011 i favorevoli erano il 71%, oggi (2017 n.d.r) sono il 44%". Incertezze e inciampi, soprattutto comunicativi, hanno segnato una battaglia mai pienamente compresa dal Paese. E mai realmente spiegata dal centro-sinistra. Quella per riconoscere a più di un milione di di italiani (per l'esattezza 1,2 milioni di minori stranieri nati dal 2006 ad oggi, secondo uno studio della Fondazione Leone Moressa) la loro cittadinanza di fatto e non ancora di diritto è stata portata avanti, per anni, fuori da argomentazioni razionali. 

 

Uno storytelling, avrebbero detto all'epoca, bugiardo sin dal nome: Ius Soli significa nascere su un territorio e diventarne cittadini. Sarebbe stato meglio parlare di uno Ius Culturae (prevede la nascita e la formazione o l’arrivo entro un’età e la formazione). Ma l'utilizzo del latino fuori dal significato è una specialità olimpica tutta italiana. Anche l'uso dello slogan "atto di civiltà" ha steccato più volte nel dibattito. Come se un'argomentazione etica potesse sostituirsi a una scelta legislativa. Esistono paesi privi di Ius Culturae e sono paesi civilissimi: Austria, Danimarca, Finlandia, Malta, Svezia per citarne alcuni. 

 

Lo "Ius soli" targato Pd è una norma che propone uno scambio non tra diritti e cittadinanza ma tra doveri e cittadinanza, parolina assente già all'epoca e ancora oggi. Lanciare battaglia senza conoscerla, attribuendo aspetti moraleggianti è il preludio dell'ennesima sconfitta. Se poi la maggioranza è appannaggio di chi questa legge non la vuole, la battaglia è destinata restare uno slogan buono per qualche card di Instagram: Fratelli d'Italia e Lega sono contrari, mentre Forza Italia spinge per uno Ius Scholae, cioè l'acquisizione della cittadinanza al minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il dodicesimo anno di età che abbia frequentato regolarmente per almeno cinque anni uno o più cicli di studi nelle scuole del sistema di istruzione italiano o corsi di formazione professionale riconosciuti, triennali o quadriennali. 

 

Questi sono i fatti. Cronaca politica, il bandolo di un filo da riannodare nella memoria. Poi bisogna respirare lentamente e prendere la distanza dalle schermaglie nei palazzi del potere, discussioni e travaglio di animi in cortile. Riprendere le parole di chi in passato proprio su queste pagine ha tentato di allargare lo sguardo e accendere sul diritto di cittadinanza una luce nell'ombra. Nel 2017 Michela Murgia riformista e rivoluzionaria insieme, compose e ricompose la questione in maniera semplice, chiara per chiunque. 

 

Lo Ius Soli ci porta considerare che il terreno sia nostro. Poiché noi apparteniamo al terreno che determina la nostra identità, esercitiamo un potere di reciprocità assoluto. Questa è una logica che per un sacco di secoli ha consentito la colonizzazione: più possiedo e più sono forte, l’imperialismo nasce con lo Ius Soli. Il concetto di possesso e di controllo della terra deriva da questo ed è figlio di un modello di Stato ottocentesco e predatorio che oggi non ha più senso.

Lo Ius Sanguinis è peggio. Si fonda sul patriarcato: chi ti dà il sangue ti dà identità, cosi erediti il cognome, la terra. Sono diritti questi che generano sistemi di potere in un Italia ancora così frammentata da Sud a Nord.

 

Per questo bisogna rimettere in discussione tutto: "Ripensare la cittadinanza così come la conosciamo", scriveva Michela Murgia: "Legarla alla patria (e quindi alla paternità) ha infatti confermato solo le appartenenze che storicamente vengono dai padri: consanguineità e patrimonio, cioè ius sanguinis e ius soli, entrambe matrici squalificanti e divisive dello stare insieme. Lo ius sanguinis è il principio di tutti i patriarcati e di conseguenza di tutti i nazionalismi, perché se il sangue genitoriale definisce la tua appartenenza allora non importa più chi sei, ma solo di chi sei. Il singolo non ha valore se non come estensione dell’identità collettiva. Chi difende lo ius sanguinis pretende che tutte le relazioni individuali siano subordinate alla relazione collettiva originaria, quella dell’essere sangue del sangue di un cittadino italiano. Per questo non importa da quanti anni sei nato qui, se ci lavori, se ci sei cresciuto o ci sei andato a scuola: senza quell’atto d’origine non sei nella nostra genealogia sociale, sei nessuno".

 

Con lo ius soli non va molto meglio. Scrive sempre Murgia: "Il diritto del suolo ha fondato infatti gli imperialismi e le colonializzazioni, perché se è la terra che possiedi a darti l’identità, è legittimo e indispensabile accaparrarsene quanta più possibile, non importa come, e difendere quella che hai con ogni mezzo. Perché la terra ti definisca come proprio è infatti indispensabile che tu a tua volta la definisca come tua in modo non sindacabile, altrimenti chiunque ti porti via la terra ti porterebbe via anche l’identità. Paradossalmente si sono fatte più guerre per lo ius soli che per lo ius sanguinis, perché la terra, a differenza del sangue ricevuto una volta per tutte, è sempre a rischio di sottrazione".

 

E allora potrebbe andare bene lo Ius Culturae o Scholae? Non proprio. Bisogna concentrarsi sul concetto di "integrazione" che riempie i nostri giornali, le nostre televisioni, i nostri dibattiti pubblici e privati. La parola integrazione genera conflitto. Parte dalla radice integro, vuol dire che c'è un intero e un frammento che aspira a diventare parte di quella interezza. Immaginiamo sempre una Nazione in cui qualcuno è intero e qualcuno è una parte. Questo ci porta a considerare che la nostra sia una società completa e stabile e l'altro sia frutto di una frantumazione che vuole entrare a far parte della nostra e deve assimilarsi. Perché è proprio questo il punto: ciò che chiamiamo integrazione è assimilazione. Non vediamo o fingiamo di non vedere che chi approda da questa parte di mondo è già portatore di un trauma; ha viaggiato con niente e quel niente lo ha perso nel viaggio. Ciò che gli rimane è ciò che lui è: la sua cultura, le sue radici, la sua appartenenza. Una volta approdato gli viene detto che quello che lui è non vale niente, tutto il suo modo di organizzare il mondo non conta. Deve diventare come noi perché il suo pezzo non entra nel nostro puzzle. 

 

Negare che una differenza possa diventare ricchezza è l'origine di quella rabbia che vediamo esplodere nelle banlieue, per esempio, con edifici anneriti e sventrati dalle fiamme, carcasse di auto e resti di cassonetti incendiati nelle strade. Proprio per questo è bene alzare lo sguardo, ogni tanto, e attingere energia da dove scorre. In Italia abbiamo avuto Riace, Mimmo Lucano che ha trasformato un fazzoletto di terra della Calabria in una Babele di lingue, cultura, eguaglianza. Ha messo in atto un micromodello di accoglienza che non ha salvato solo i migranti che hanno scelto di restarci: ha salvato Riace, ripopolandolo e vivificandolo, garantendogli la scuola, il presidio sanitario a rischio e un'esperienza di convivenza bella e proficua che ha attirato l'attenzione di tutto il mondo, semplicemente perché funziona.

 

Più lontano da noi c'è il Canada. Un paese modello che parte con le promesse peggiori: uno stato fondato da due forze coloniali come Francia e Inghilterra e che ha ereditato il colonialismo peggiore, quello che rade al suolo tutte le etnie per potersi affermare. Nel giro di pochissimo tempo i canadesi hanno capito che quella strada li avrebbe portati alla rovina, così oggi il Canada non somiglia neanche agli Stati Uniti dove c’è il melting-pot, qui i principi sono diversi e partono dalla scuola: il rispetto linguistico, per esempio, ci sono cinque lingue si insegnano tutte e cinque. Un paese dove non c’è una rivendicazione basata sulla negazione, non esiste una cultura nativa che viene insegnata e non c’è idea di gerarchia culturale.

Chi arriva e fa parte di una comunità numerosa è obbligato a portare il proprio contributo. Sicché ad Hannukkah tutti festeggiano, durante la festa dei colori indiana tutti festeggiano, a Natale tutti addobbano l’albero. Si pratica il cosiddetto “relativismo culturale” che non indica culture superiori e inferiori. Tutte le differenze contano e tutte portano ricchezza. È una politica che il primo ministro Justin Trudeau ripete spesso e ha anche il coraggio di praticarla. Naturalmente non è un modello che si può importare, il Canada ha un indice di sviluppo del Pil in crescita che consente questa generosità mentre in uno stato di crisi come quello italiano si applica la regola della sopravvivenza: anche il vicino è tuo nemico. Eppure proprio questo modello applicato da decenni ha contribuito alla crescita del Canada.

 

Il premier canadese Trudeau a riguardo fece un discorso che suonava più o meno così: “Può sembrare problematico per una ragazzina figlia di una famiglia musulmana affrontare il conflitto del dovere mettere il rossetto o scegliere di uscire la sera con gli amici, eppure allo stesso tempo non vive in uno Stato che dice: questo è l’unico modo corretto di vivere, che impone. Questa ragazzina sa che ci sono leggi che tuteleranno la sua scelta ma è lei che dovrà fare questa battaglia”.

 

Preoccupa, spaventa, ma quante volte dobbiamo importare il nostro modello dicendoci che questo il migliore? Si può vivere affianco all’altro senza fargli la guerra. Se il tuo modello culturale è così perfetto anche l’altro lo vedrà e ne vorrà far parte. Oppure tu sarai costretto a guardare come vivono gli altri e scoprire che alcune modalità che consideri migliori non sono l’unica risposta possibile.

 

La lezione di Michela Murgia è questa: declinare nuovamente le parole, alzare lo sguardo e cercare per quanto sia possibile di rimodellarsi al mondo che avanza. Rifiutare la parola Patria: "Pensarsi come Matria consente di sradicare questa prospettiva, perché la madre nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata. [...] Non è un esproprio, ma la prova che stanno ridefinendo la loro appartenenza dentro alle relazioni anche istituzionali che hanno incontrato. Lo slittamento semantico cambia la prospettiva, perché tra patria e matria c’è la stessa differenza che esiste tra una somma e una moltiplicazione: se la patria è il luogo che ti riconosce, la matria è quello in cui tu impari a riconoscere chiunque. Sarebbe un grosso errore pensare che solo uno dei due sia il luogo della politica".

 

Solo dove c'è posto per tutti c'è posto per ciascuno: non ci si salva da soli. Il sottofondo di questo tempo è la paura. Padroni a casa nostra, è il ritornello, come se il Paese fosse di chi lo governa e non di tutti. C’è un idea proprietaria del potere politico. Qualcosa che non porterà lontano, alla fine ti puoi solo barricare dentro.