Girma Aweke era adolescente quanto decise di unirsi al gruppo clandestino della resistenza etiope. Ma quando si beccò la malaria riuscì in qualche modo a lasciare il Paese in guerra. Qualche mese dopo venne spedito a San Francisco, nell’ambito di un programma di ricollocazione per prigionieri politici.
Din Du impiegò mesi per costruirsi da solo un’imbarcazione di legno e cercare di lasciare il Vietnam assieme ai suoi familiari. Quando la chiglia cedette fu una nave americana a trarre lui e gli altri a bordo in salvo.
Axel Schröder era un giocatore di basket tedesco giramondo quando incontrò Fatou e se ne innamorò. Giocava nel campionato del Gambia, una volta esaurito il suo contratto tornò in Germania assieme a Fatou per sposarla.
Naomi, figlia di Girma, oggi è considerata una delle cento migliori calciatrici al mondo, a Parigi veste la maglia degli USA. Lilia Vu, figlia di Din Du, è ai primi posti del ranking mondiale di golf e anche lei rappresenta gli Usa a questi Giochi.
Dennis Schröder, 30 anni, figlio di Alex e Fatou, la pelle nera come l’ebano, è un campione di basket nella NBA. Ed è stato prescelto come porta bandiera per la Germania.
Potremmo andare avanti all’infinito. Ma qui torna utile un motto utilizzato cento anni fa quando andò in scena l’Olimpiade lungo la Senna l’ultima volta: “Venite a Parigi a scoprire il mondo”. Se qualcuno non se ne fosse accorto il mondo è quello di Naomi, Lilia, Dennis e centinaia di altri che competono a questi Giochi. Circa il 4% degli atleti del Team Usa non è nato in America, un altro 7% è figlio di gente immigrata che parla a malapena l’inglese. I territori di provenienza vanno dalla Cina alla Somalia, passando per Camerun, Brasile e Cuba. Eccetera.
A Glasgow qualche mese fa in occasione dei mondiali di atletica indoor, Lorenzo Ndele Simonelli, anni 22, figlio di una ragazza della Tanzania conosciuta dal padre antropologo mentre si trovava in Africa per lavoro, aveva appena vinto la medaglia d’argento dei 110 ostacoli. Una zelante cronista di un noto quotidiano lo aveva intercettato nella zona mista per porgergli l’unica domanda che le era sembrata di assoluta urgenza: “Cosa si prova a vincere una medaglia in un Paese che neppure ti considera italiano per il colore della tua pelle”. Quello aveva risposto impacciato qualcosa, sfoggiando il suo bell’accento romano.
È molto difficile, se non improbabile, che a un commentatore americano o tedesco venga in mente di rivolgere una domanda del genere a Noemi, Lila o Dennis. Non appartiene alla cultura, al modo di porsi nei confronti delle persone, prima ancora che degli atleti. A certe latitudini si vive con la consapevolezza che una bandiera è semplicemente un simbolo, rappresenta una serie di valori in cui riconoscersi e non necessariamente un segno per distinguersi da chi è diverso da noi.
A prescindere dal dato geografico che coincide con la tua nascita, una bandiera è il luogo in cui ci si sente protetti, al punto che nel momento di gioia estrema, si ha voglia di abbracciarla. Basta quel gesto per entrare di diritto nel club. Non importa come sei arrivato, tu ne fai parte con piena facoltà e a nessuno è concesso di disquisire sulle modalità d’ingresso e tantomeno sul tuo diritto a restarci.
Questo vuol dire che Noemi e tutti quelli come lei non hanno mai dovuto subire una qualche forma di razzismo? Naturalmente no. Dennis Schröder alle scuole medie era l’individuo meno tedesco che si potesse immaginare e ha sofferto spesso per le battute dei cretini. Ma quando ha portato alla cerimonia inaugurale la bandiera a strisce orizzontali, tutta la Germania, la Germania attuale, si sentiva degnamente rappresentata. Diciamo il 90%, per non passare da idealisti incalliti.
Simonelli, campione europeo dei 110 ostacoli, è uscito ieri dai Giochi in seminale. È un talento, si rifarà. Mattia Furlani, l’altra sera invece ha compiuto un’impresa fuori dal comune, prendendo un bronzo nel salto in lungo ad appena 19 anni. Babbo italiano, mamma senegalese. Un altro caso di italiano contemporaneo.
Sabato Yeman Crippa, nativo di Dessié, Etiopia, vincitore di 7 titoli europei nel mezzofondo, sabato ci proverà anche con quello Olimpico. Venne adottato dalla famiglia Crippa di Milano assieme ai suoi fratelli e parla italiano con un bell’accento lombardo.
Un dato curioso è quello relativo alla presenza di atleti nati fuori dall’Italia nella squadra italiana che prese parte a Pechino nel 2008. La percentuale di “stranieri” tra gli azzurri era identica a quella di oggi. Non si registrarono rimostranze, dibattiti televisivi per stabilire quanto Josefa Idem o Libania Grenot fossero italiane o meno.
Che twitter fosse ai primi passi e Instagram dovesse ancora essere inventato probabilmente è solo una coincidenza. O forse no. La sensazione a spanne è che in questi 16 anni l’Italia abbia vissuto una trasformazione che le impedisce di vedere il mondo nella sua veste più logica, che il suo sguardo tenda spesso a posarsi sugli eventi con una prospettiva alla rovescia.
Stasera alle 20 l’Italia del volley femminile si gioca l’accesso alla finale contro la Turchia. Grandi aspettative sono riposte sull’azzurra Paola Egonu, veneta di genitori nigeriani, attaccante di fama planetaria.
Venite a Parigi a scoprire il mondo.