“In ogni viaggio Papa Francesco sapeva stupirmi”

In volo verso posti dimenticati e tra mille imprevisti. Ecco i ricordi di un vaticanista che ha seguito Bergoglio sempre, in Italia e all’estero. Scoprendo un Papa, al tempo stesso, normale e straordinario nella sua umanità. Con una parola d’ordine: pace

L’ho visto entrare in un igloo in Groenlandia, bere da una coppa prima di penetrare in una tenda nomade in Mongolia, salutare rispettosamente una famiglia poverissima e con i suoi membri varcare la soglia della casupola fatiscente in una baraccopoli dell’Africa. Per dodici anni, sin dalla sua elezione, ho seguito tutti i viaggi nazionali e internazionali di papa Francesco. La maggior parte volando in aereo con lui, insieme con un ristretto gruppo di giornalisti dei media internazionali. E in ogni volo, fatto inedito con i Papi precedenti, Jorge Mario Bergoglio passava tra i sedili durante il viaggio di andata, si fermava a lungo con ognuno, parlava, si informava e rispondeva. Nel viaggio seguente, anche se erano trascorsi mesi, si ricordava di quello che gli avevi detto nel precedente, come fosse una conversazione tra amici interrotta da poco. Durante il viaggio in Cile, una coppia – una hostess e uno steward – gli disse si essersi sposata solo civilmente perché un terremoto, anni prima, aveva distrutto la chiesa che avevano scelto. Lui semplicemente chiese loro: «Vi sposo io, ma siete sicuri di volerlo?». «Certo», gli riposero increduli. E, con nostro stupore, su quell’aereo si celebrò il più straordinario matrimonio mai visto a diecimila piedi di altezza.

 

Quando ogni volo stava per terminare, il Papa tornava nella parte dell’aereo riservata ai giornalisti e rispondeva a tutte le domande che gli facevamo, senza nessun filtro: non ha mai voluto conoscerle prima per regolarsi, come abitualmente fa ogni capo di Stato. Le risposte erano così immediate e sincere che noi, abituati ai densi filtri curiali, ne rimanevamo sempre stupiti.

 

Nei viaggi si è potuto ancora più facilmente percepire il filo rosso che ha attraversato tutto il suo pontificato; anzi, un filo d’oro: la parola pace. Ricordo la pesante cintura di sicurezza che venne stesa attorno a noi quando, per la prima volta nella storia, volle – nonostante le autorità francesi avessero detto che non garantivano la sua incolumità – aprire il Giubileo straordinario della Misericordia in un Paese devastato da conflitti e in un continente costellato di guerre, ma quasi scomparso dai riflettori dei media: a Bangui, nella Repubblica Centrafricana. Ricordo la messa celebrata sul confine tra Messico e Stati Uniti, quando Donald Trump aveva blindato le immigrazioni, e le secche parole sul volo di ritorno: «Chi pensa solo a fare muri, e non ponti, non è cristiano».

 

In aereo, come nei suoi discorsi pubblici, il Papa ha tuonato più volte contro l’industria della morte voluta dai fabbricanti di armi, che così si arricchivano; ha insistentemente richiesto il dialogo come unica soluzione, dicendo che la guerra è sempre una perdita per tutti e che nessuno ne esce mai vittorioso. Più volte, in queste davvero singolari conferenze stampa, ha ripetuto l’espressione «terza guerra mondiale a pezzi» per indicare lo stato del Pianeta, funestato da conflitti. A Gerusalemme, dopo aver infilato un foglietto con una preghiera dentro il Muro del Pianto, obbligò l’autista a fermarsi anche davanti al muro di separazione che isola i palestinesi. Mi stupii quando, a una udienza generale, lo osservai sventolare una bandiera di Bucha, la città ucraina dove era avvenuta una terribile strage. Mi commossi quando lo vidi interrompere il discorso e scoppiare in lacrime davanti alla statua della Madonna di Piazza di Spagna, alla quale disse, mostrando la sua certezza di rivolgersi a una persona viva: «Avrei voluto portarti oggi il ringraziamento del popolo ucraino per la pace, che da tempo chiediamo al Signore. Invece la guerra ancora infuria».

 

Bergoglio l’ho conosciuto prima che diventasse Papa. Lavoravo in un mensile italiano, che veniva tradotto in varie edizioni nel mondo: si chiamava “30Giorni”. Si occupava di politica internazionale, di cultura, ma soprattutto di informazione religiosa. Era pubblicizzato come «il mensile più informato sulla Chiesa nel mondo». L’anima del giornale era un sacerdote di luminosa intelligenza ed enorme capacità pastorale, che aveva affascinato e avvicinato al Cristianesimo generazioni di ragazzi e adulti: si chiamava Giacomo Tantardini. Alcuni di noi di “30Giorni” si erano affezionati al cardinale di Buenos Aires, che avevano incontrato intervistandolo in Argentina.

 

Bergoglio venne invitato a celebrare le cresime nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, io ero padrino di cresima di Edoardo, figlio del mio testimone di nozze. Già anni prima l’ex direttore di “30Giorni”, Alver Metalli, che si occupava dell’America Latina, mi parlò di questo cardinale che definiva «bravissimo» e che era figlio di genitori italiani. «È straordinario e parla anche italiano: sarebbe un Papa perfetto», mi disse sorridendo e non sapendo che un giorno quelle parole si sarebbero avverate.

 

La sera nella quale – dopo le dimissioni di Benedetto XVI – venne eletto il nuovo pontefice, io ero su una terrazza vista Cupolone con il microfono in mano e una telecamera davanti, perché da anni ero passato a lavorare per un canale televisivo nazionale e stavo facendo le telecronache del Conclave. Dopo la fumata bianca, in bassa frequenza, sul circuito interno vaticano, passarono, certamente per errore, delle immagini che mi lasciarono senza fiato: Bergoglio che camminava nei corridoi vaticani con una semplice tunica bianca. Pochissimi decisivi secondi.

 

Richiesi ripetutamente la linea, nel frattempo passata allo studio, ma nel comprensibile entusiasmo che aveva pervaso anche la regia nessuno mi sentì. Quando, minuti dopo, venne annunciato il nuovo Papa e Bergoglio apparve sul balcone centrale di San Pietro, fu la conduttrice a ripetere il nome di Francesco e io non pensai al disincanto di uno scoop mancato, ma vissi la gioia per quella elezione che ero certo fosse foriera di grande bene per la Chiesa e per il mondo. Sul cellulare mi arrivarono una fotografia e un messaggio; erano del mio testimone di nozze, che mi mandava l’immagine di me con il figlio e Bergoglio: «Sei il primo vaticanista che ha una foto con il nuovo Papa».

 

E apparve un Pontefice che mostrava la sua “normalità”, che lasciava l’austero palazzo pontificio per vivere in un minuscolo appartamentino di due stanze, perché – disse – «ho un problema psichiatrico e mi ammalo se non sto con la gente»; che confidava pubblicamente le sue fragilità, le sue paure e i suoi timori; che richiamava sacerdoti, vescovi e cardinali e anche sé stesso ad avere lo sguardo fissato unicamente su Cristo, implicando vicinanza agli ultimi; che – quando il suo autista sbagliò strada durante il suo primo viaggio internazionale, in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù, e l’automobile rimase bloccata tra la folla, scatenando un’ansia enorme in chi era incaricato di proteggerlo – non volle alzare i finestrini e permise a numerosissime mani di toccarlo e di accarezzargli il viso, spiegando poi: «Non si va a casa di qualcuno e poi si indossa un’armatura».

 

E il suo pontificato lo visse sempre così, senza armature. Fino all’ultimo giorno in cui si è concesso, seppure profondamente debilitato, ai fedeli, attraversando Piazza San Pietro in papamobile. Convinto che solo dandosi «tutto a tutti» poteva rendere grazie al Dio a cui aveva affidato la vita e che la sua vita – aveva detto una volta in volo – poteva prendersi quando voleva.

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