Le mani intatte. Gli occhiali, pure. La chiave che aveva sempre in tasca lucida a brillare tra i rovi lungo i binari. Il necroforo incaricato da un carabiniere di cercarla, però, non la vide. Ne trovò altre tre ma non furono giudicate importanti. L’occhio attento fu proprio quello del militare. La recuperò al culmine dell’unica scrupolosa e miope ricerca sulla scena del crimine: trecento metri di linea ferrata, sterpaglie e cavi elettrici sospesi. Trenta chili di resti, meno della metà del peso dell’uomo a cui appartenevano, Giuseppe, Peppino, Impastato, 30 anni, militante demoproletario di Cinisi, Palermo.
Non avevano altro da cercare. La loro verità, i carabinieri, la possedevano già. Contro ogni evidenza, contro ogni logica, contro gli indizi trascurati, gli accertamenti omessi, le prove insabbiate o distrutte, conclusero subito che si era trattato di un incidente: il fallito attentato di un bombarolo rosso a cui l’ordigno era esploso in mano, nel maldestro tentativo di piazzarlo tra ciottoli e traversine. Un depistaggio.
“Era tutto pianificato”, raccontò un investigatore della polizia arrivato in seconda battuta.
Il depistaggio
Era il 9 maggio 1978, mille e più chilometri a Sud di via Caetani a Roma, dove quello stesso giorno, dentro un R4 rossa, giaceva il corpo di Aldo Moro, il presidente della Dc, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia.
Nel pieno di una tragedia nazionale, in pochi si presero davvero la briga di occuparsi di quel che accadeva in un fazzoletto di terra incolta, poco fuori il grappolo di case che il boss Tano Badalamenti aveva trasformato nel terminale del ponte aereo della droga con l’America. Con i resti di Peppino Impastato in due sacchi, familiari e compagni perquisiti, vessati e intimiditi e nonostante la gigantesca mobilitazione per i funerali, la mistificazione costruita a tavolino quel giorno resse per 23 anni.
Tanti ne trascorsero dalle prime certezze giudiziarie del 2001: Peppino Impastato, consigliere comunale e giornalista postumo, era stato ucciso dalla mafia e quella della bomba era una macabra messinscena. Opera di Cosa nostra, avallata dai carabinieri guidati dall’allora maggiore Antonio Subranni, futuro generale, morto nel 2024, condannato e poi assolto per la trattativa Stato-mafia, sotto inchiesta e archiviato per prescrizione nel 2018 per la mistificazione su Impastato.
Ventitré anni perché diventassero sentenza le verità che il fratello, la cognata, gli amici e compagni di Peppino, i fondatori del centro di documentazione che porta il suo nome, gli avvocati, i medici legali, i responsabili di Democrazia Proletaria avevano prospettato fin da subito. E che invano, da Rocco Chinnici ad Antonino Caponnetto fino alla definitiva requisitoria di Franca Imbergano e agli atti della commissione antimafia, si era provato a scrivere.
Il delitto
Fu Tano Badalamenti a ordinare il delitto. Se ne incaricò Vito Palazzolo, suo luogotenente. Affidò il compito a Nino Badalamenti e a Francesco Di Trapani.
La sera dell’8 maggio 1978, Peppino aveva lasciato i locali di Radio Aut a Terrasini, cinque chilometri da Cinisi a bordo della sua 850. Qualcuno lungo la strada lo attirò in un tranello e lo condusse fino a un casolare ferroviario a ridosso dei binari. La sua auto rimase nascosta alla vista dalla prospettiva del vicolo che dalla provinciale porta allo spiazzo della costruzione. In quel luogo fu certamente ferito, tramortito. Su una sedia c’erano macchie di sangue, su una pietra delle altre tracce. Il breve tragitto dalla parete alla porta di ingresso punteggiato di chiazze. La pietra la trovarono i compagni e la portarono ai carabinieri. Una perizia di parte stabilì che il sangue era compatibile con il gruppo, raro, di Peppino. Per i carabinieri era sangue mestruale.
In quel casolare, oggi finalmente, consegnato a tre associazioni che a Cinisi coltivano la memoria di quel che è stato, i militari non misero mai piede.
Né interrogarono Provvidenza Vitale, la casellante partita per gli Stati Uniti.
Né si occuparono del «pezzo di stoffa colore nocciola sporco che presenta attaccature di materiale solido colore piombo». E neppure della «materia argentata solidificata» di cui era imbevuto un sacco di tela, forse utilizzato per trasportare l’esplosivo.
Il corpo era stato trascinato sui binari e lì fatto esplodere.
L’impegno
La chiave lucida ritrovata dal carabiniere aprì Radio Aut. I calci alle porte le case della zia e dei genitori di Peppino. E poi quelli degli amici. Non trovarono altro che documenti politici e le denunce su mafia e politica a Cinisi e nei dintorni già pubblici da un pezzo. Trovarono anche una lettera di Peppino, era di molti mesi prima. Raccontava del disinganno di un attivista deluso dal compromesso che lo circondava e decretava un addio non alla vita ma all’impegno all’interno di una galassia che lo aveva deluso transitando dalla vicinanza al Pci alla militanza nel Psiup e in Lotta Continua, fino all’approdo a Dp. Uno sfogo intimo che bastò a irrobustire l’ipotesi dell’auto-bomba con il vago alone di un intento suicidario.
Così, dopo averlo ucciso, provarono anche ad annichilirne la memoria.
Badalamenti esercitò tutto il suo peso di grande elettore democristiano per ottenere che le indagini si chiudessero in fretta avallando la tesi del bombarolo.
La mafia
Nei nastri di Radio Aut c’era una parte del lavoro di Impastato, la narrazione irridente e irriverente, con l’uso dello sberleffo e dell’ironia, la satira graffiante che denunciava con nomi, cognomi e soprannomi, gli appetiti di Tano Seduto, alias Badalamenti su Mafiopoli, ovvero Cinisi. Le mire sulle campagne aggredite dalla speculazione, scippate agli allevatori per il mega affare della terza pista dell’aeroporto, il massacro della costa con la costruzione del camping Az10, opera di Pino Lipari, il geometra dell’Anas che vent’anni dopo si sarebbe scoperto essere il fiduciario degli appalti di Bernardo Provenzano. Anche quest’ultimo, del resto era di casa a Cinisi. Saveria Palazzolo, la camiciaia che aveva scelto per compagna era proprio di lì.
Cosa nostra in casa
La mafia, Peppino Impastato, l’aveva respirata in casa. Il padre, Luigi, proprietario di una pizzeria, uomo d’onore e amico molto stretto di Badalamenti. Lo zio, Cesare Manzella, era un padrino in ascesa fatto saltare in aria con una Giulietta al tritolo nel 1963. Da bambino era stato in braccio a Luciano Liggio.
Il suo sarebbe stato un destino scritto. Ma una serie di circostanze ne deviarono il corso. Scheggia impazzita di un sistema perfetto. Eretico, dentro e fuori la sua cerchia ristretta.
Dalla famiglia di sangue fu allontanato dopo la morte per meningite di un fratellino e crebbe con una coppia di zii senza figli che lo allevarono a letture di libri e giornali. Il resto lo fecero gli incontri, la militanza, l’impegno che canalizzarono un’intelligenza vivace e un temperamento esuberante.
La rottura in famiglia
Si inventò di tutto a Cinisi cambiando la propria vita e quella di chi gli era accanto, contagiando un’intera generazione. Gli amici, certo ma soprattutto la famiglia. Per il Peppino che ruppe nel suo clan, rifiutando connivenze e compromessi, che ostentò il no alla stretta di mano con i boss ai funerali dello zio, che, pur amandolo, rinnegò il padre, che prese le distanze anche dal patrimonio di famiglia anche la madre Felicia cambiò. E accadde ben prima di quel 9 maggio. Dopo fu lo strazio, un dolore e una sete di giustizia che la portavano a percuotersi la testa tutte le notti tenendo con una mano la foto del figlio, fino al coma che svelò gli ematomi che si era inferta. «In un sacchetto me lo hanno dato mio figlio», ripeteva.
Un boss in bilico
Badalamenti doveva fermare quel ragazzo che ne minava ogni giorno la reputazione e gli affari. Il boss viveva un periodo turbolento: aveva provato a scalzare l’astro nascente Totò Riina negli assetti dell’organizzazione, partecipato a una riunione segreta con un gruppo di potenziali congiurati. In casa doveva far pulizia ma doveva dissimulare l’omicidio del figlio di un amico. Pochi giorni ancora e avrebbe subito un processo interno a Cosa nostra che ne decretava la messa fuori famiglia, posato come si dice in gergo, un mafioso non operativo a cui era risparmiata la vita per rispetto al rango. L’omicidio Impastato fu l’ultimo atto da padrino. I traffici con gli States lo avrebbero portato poi in carcere negli Usa. Morìil 30 aprile 2004, a 80 anni,
nel centro medico penitenziario Devens Fmc, ad Ayer (Massachusetts).
I Cento passi
Nel 2000 il film i Cento Passi, Leone d’oro a Venezia, fece conoscere la storia di Peppino al mondo, merito del regista Marco Tullio Giordana e degli sceneggiatori Claudio Fava e Monica Zappelli. Da allora la crescente attenzione ha dovuto fare i conti con la necessità di non snaturare in un’icona la memoria di Impastato. Non farne un santino eroico da esibire alle celebrazioni, come hanno denunciato il fratello Giovanni e l’amico Pino Manzella, oscurandone l’impegno genuino, la natura tutta politica della sua attività, anche quella di animatore culturale della vita di Cinisi. E di uomo capace di incidersi la ribellione sulla pelle, rompendo, «caso unico» come ricorda Umberto Santino, prima di tutto in famiglia.
Felicia
Quando Vito Palazzolo fu condotto davanti al giudice, c’era Felicia ad attenderlo al piano terra del palazzo di giustizia, oltre la vetrata dell’ufficio gip. Gli si parò davanti e gli disse vergogna, costringendolo ad abbassare gli occhi.
Il giorno in cui condannarono Badalamenti disse: ora posso morire. Trascorse altri tre anni ad accogliere nella sua casa, diventata Casa Memoria, migliaia di giovani curiosi di conoscere la storia di Peppino e la sua. Si raccontò ad Anna Puglisi e raccontata da Mari Albanese, trascorse gli ultimi anni chiedendo alla nipote Luisa: «Mettimi ancora u’ cinema di Peppino».