Chi abita nel "Villaggio delle Rose" rischia di dover lasciare la propria casa. Ma il Comune sta valutando una proposta alternativa: trasformare l’area senza demolirla. Un possibile cambio di paradigma nelle politiche di inclusione

A Milano un campo rom potrebbe trasformarsi per la prima volta in Italia in una cooperativa autogestita dai suoi abitanti

"Quando sono arrivato avevo solo una roulotte, l’ho messa proprio qui. Ed ero l’uomo più felice del mondo perché guardavo la piazzuola e mi dicevo: 'Qui devo costruire qualcosa di mio, il mio futuro'". A parlare è Iaio Deragna, 76 anni, rom harvati di origine croata. Dal 2002 vive con altre 48 famiglie, circa 250 persone, nel campo rom di via Chiesa Rossa a Milano, meglio conosciuto come Villaggio delle Rose. Quel futuro ha una data di scadenza: il 14 giugno. Non è la data di uno sgombero, ma il termine fissato dal Comune per verificare se gli abitanti del Villaggio hanno seguito l’invito di lasciare volontariamente le loro case. La delibera della giunta, firmata a dicembre, prevede un “necessario superamento del campo” per motivi di sicurezza urbana, degrado ambientale e allacci abusivi alla rete elettrica. A pochi giorni di distanza da questa scadenza l’ultimo tavolo di confronto con il Comune ha aperto nuove prospettive. La data rimane, ma gli assessori Lamberto Bertolè, con delega al Welfare e Salute, Fabio Bottero, all’Edilizia Residenziale Pubblica, e Marco Granelli, alle Opere Pubbliche, hanno preso in considerazione la proposta avanzata dalla comunità. 

 

Grazie alla mediazione di Djana Pavlovic, portavoce del Movimento Kethane - Rom e Sinti per l’Italia e Paolo Cagna Ninchi, presidente dell’associazione Upre Roma è nata un’idea senza precedenti: la costituzione di una cooperativa di abitanti a proprietà indivisa. Per la prima volta in Italia – e probabilmente in Europa – una comunità rom propone di autogestire il proprio insediamento. Il progetto, sviluppato con l’aiuto dell’architetto Giovanni La Varra (tra le firme del Bosco Verticale) e dell’ex assessore ai Lavori Pubblici e alla Casa Gabriele Rabaiotti, ha come obiettivo quello di trasformare l’area senza demolirla: risolvere le criticità segnalate dal Comune rispettando al contempo il diritto della comunità a vivere secondo il proprio modello culturale. 

 

Il Comune ha mostrato un cauto interesse per la proposta avanzata dalla comunità, dichiarandosi disponibile a valutarne la fattibilità. Ha però posto una condizione imprescindibile: la messa in sicurezza dell’area. Nelle prossime due settimane verranno effettuati i rilievi tecnici per capire la portata degli interventi necessari: solo allora si saprà se esistono le condizioni per un accordo che permetta alla comunità di impegnarsi a sistemare, a proprie spese, le criticità rilevate. L’alternativa è che gli abitanti del Villaggio vengano trasferiti temporaneamente - ma significherebbe per almeno un paio di anni e di fatto con nessuna garanzia sulla realizzazione del progetto - in case Sat (Servizi Abitativi Transitori) o centri d’accoglienza.   

 

Tra le criticità segnalate dal Comune, emerge quello dei cumuli di rifiuti nocivi nelle zone adiacenti al campo. Questione, in realtà, più volte denunciata dalla stessa comunità: "Ci svegliamo la mattina e, spesso, ci ritroviamo davanti a pile di immondizia", spiega Licia Breidic. La sua casa è accanto a quella di Iaio. "L’altro giorno è arrivata una macchina e ha scaricato non so quanti materassi. Perché dovremmo buttarci la spazzatura in casa, abbiamo i nostri contenitori e viene l'Amsa a ritirarli. Perché dovrei buttare i rifiuti nel posto in cui vivo, dove passo per andare a fare la spesa o portare il bambino a scuola?". 

 

Oltre al problema della discarica abusiva, centrale rimane la questione dell’elettricità. "Avevamo chiesto al Comune di costruire un impianto del gas per poter scaldare le case - ricorda Tony Deragna, nipote di Iaio -. Questo impianto non c'è mai stato, e quello elettrico ha una potenza di soli tre kilowatt. Ci siamo adattati usando stufe elettriche, il che ha portato a un sovraccarico. Abbiamo trovato una soluzione, diciamo, artigianale". Una corresponsabilità a cui il Comune ha fatto fronte una decina di anni fa predisponendo delle nuove linee: i fili sono stati tirati, ma le colonnine non sono mai state attivate.  

 

Problemi, dunque, non certo nuovi, a cui però ora si cerca di rispondere per evitare la chiusura del campo. Il Villaggio delle Rose non è un insediamento irregolare: fu concesso dalla giunta Albertini come soluzione allo sgombero del precedente campo abusivo di via Fattori, a Muggiano. L’area fu poi concessa a Esselunga, che in cambio versò un contributo economico a ciascun nucleo familiare.

 

"Quando ci hanno spostati, a ogni famiglia è stata data solo una piazzola di 100 mq. Tutto quello che vedi lo abbiamo costruito noi con i nostri risparmi", racconta Iaio mentre indica la sua casa e quella di Licia. "Quel tetto, tegola dopo tegola, è opera nostra". Non si tratta di costruzioni abusive, ma di prefabbricati sistemati su aree assegnate, trasformati nel tempo in abitazioni vere e proprie grazie all’impegno delle famiglie che le abitano.

 

Dopo l’arrivo della lettera del Comune, spedita all’unica casella postale all’ingresso del Villaggio, la comunità ha scelto di reagire. "Stavamo lavorando ai preparativi per la vigilia di Natale: i vestiti per i bambini, gli addobbi. Quando mio suocero è tornato a casa, aveva la faccia bianca. Non riusciva a darci la notizia. È stato uno shock, non abbiamo più festeggiato". Mentre ricorda quei giorni, Licia è seduta su una poltroncina nel patio della sua casa. Lo tasta con forza, come se se lo sentisse portare via. I bambini entrano ed escono di casa, corrono, ridono facendo volare un macchinina. Seduta un po’ in disparte c’è la fidanzata di suo figlio. Ascolta, rimanendo in silenzio. "Lei adesso sta aspettando un bambino: che progetto posso dare a mio nipote, se non so dove andare? Non puoi neanche permetterti di comprare un passeggino, perché dove lo metto se non so dove andrò?".

 

Rimanere, dunque, non significa solo riqualificare lo spazio, ma riconoscere e valorizzare un modo di abitare fondato sul senso di famiglia e sulla condivisione: della lingua, degli usi dei costumi. Il progetto della cooperativa offre al Villaggio la possibilità di scegliere tra diverse soluzioni abitative, studiate da La Varra e Rabaiotti con l’obiettivo di mettere a norma il campo, rispettando al contempo i desideri e le esigenze delle persone. La stima di un modulo abitativo prefabbricato varia tra i 40 mila e i 50 mila euro. Tutti questi interventi saranno a carico della cooperativa di abitanti che lavorerà su un piano di sostenibilità pluriennale, consapevole che i soli soci non possono sostenere tutte le spese. Quindi Fondazioni, enti pubblici e donatori privati saranno fondamentali. 

 

Non si tratta solo di un’operazione urbanistica, ma di un cambio di paradigma nelle politiche di inclusione e un modo per non disperdere tradizioni e cultura. Il Villaggio delle Rose è anche un importante luogo di memoria. Qui si trova il primo monumento italiano dedicato al Porrajmos, il genocidio di rom e sinti avvenuto durante il nazifascismo, voluto e costruito dalla stessa comunità. Per loro il 27 gennaio è una data importante che commemorano insieme al quartiere, invitando i ragazzi della scuola primaria e secondaria IC Arcadia,  l’Anpi, il Municipio 5 e diverse associazioni di quartiere. 

 

Una volta avviato, il villaggio sarà gestito autonomamente dalla cooperativa. "Il Comune risparmierà con il nuovo progetto - chiarisce Djana Pavlovic -. Eviterà così tutti i costi di demolizione e smaltimento delle macerie e dei rifiuti, oltre a quelli relativi ai percorsi di inserimento e accompagnamento di queste famiglie". 

 

Case Sat e centri d’accoglienza sono soluzioni che vengono valutate dopo diversi colloqui fatti dai servizi sociali con i singoli nuclei famigliari. Un iter ripetuto e che la comunità conosce bene, già utilizzato a Milano per altri campi rom, come quello dell’estate scorsa di via Bonfadini o di Vaiano Valle nel 2022, che ha smembrato la comunità. In una situazione di emergenza abitativa come quella che vive la città, con migliaia di studenti e di famiglie che fanno sempre più fatica a trovare un alloggio, gli abitanti si chiedono se sia davvero necessario che rinuncino alla propria casa. 

 

"Ma perchè ci vogliono spostare?", si chiede Iaio. "Immaginatevi io e la mia famiglia in un centro accoglienza con persone con un altro modo di pensare, con un'altra cultura, con un'altra tradizione, con un'altra religione. Che scontri potrebbero crearsi lì dentro? Sarà una polveriera, una bomba pronta ad esplodere". Licia lo guarda annuendo. "Se sono una persona cattiva, una delinquente, se non voglio mandare i bambini a scuola, non cambio nel momento in cui vado in un appartamento al terzo piano con il balcone. Non è l'abitazione che fa la persona, sei tu che decidi chi vuoi essere". 

 

Licia, in parte, fa riferimento ai casi di cronaca che immancabilmente, quando coinvolgono una persona rom, si proiettano direttamente sull’intera collettività, alimentando pregiudizi, stereotipi e discriminazioni. Pensieri che condivide anche Tony. Metà della sua vita l’ha dedicata alla comunità, cercando di diffondere la cultura romanì e abbattere pregiudizi

 

Ha iniziato a farlo da quando a 14 anni ha lasciato la scuola. "Alle elementari la maestra spalleggiava i compagni: capitava che mi prendevano il banco e mi mettevano in un angolo. Ero escluso e non mi sentivo accettato". Racconta che hanno continuato a promuoverlo a prescindere dai suoi voti, l’obiettivo era farlo uscire dal sistema scolastico il prima possibile. Arrivano le medie e spera che le cose siano diverse. "È stato ancora peggio. Quando è arrivato il momento dell’esame di terza media, mi sono preparato molto, volevo dimostrare di essermi impegnato. Papà mi portava a fare delle ripetizioni fuori Milano". Mentre ricorda le lezioni sulle catene montuose e su Napoleone, finisce per parlare della civiltà egizia, di cui è profondamente innamorato. "Nell’antico Egitto chiamavano il serpente “sap”, proprio come in romanes", dice sorridendo. Arrivato il giorno dell’esame era prontissimo. "Circa 20 giorni prima c'era stato un blitz dei carabinieri nel campo. La commissione mi ha chiesto cosa era successo: è stata l’unica domanda che mi hanno fatto". Qualche giorno dopo va a vedere il cartellone. Tony Deragna: promosso. Dopo anni di lotte, sente che il peso del pregiudizio non si affievolirà mai. 

 

Il popolo rom e sinti ha alle spalle una storia segnata da persecuzioni e tentativi di assimilazione forzata: dai cinque secoli di schiavitù in Romania, alla sterilizzazione delle donne Jenisch in Svizzera, fino alla deportazione e al genocidio subìti durante la Seconda guerra mondiale. "Dopo che la mia famiglia è stata deportata in Sardegna in un campo di confino, non abbiamo mai avuto una stabilità. Noi non abbiamo mai scelto di vivere nei campi: ci è stato vietato il nomadismo, ci hanno costretti in questi luoghi e noi a questi luoghi ci siamo adattati. Tra il campo di via Fattori e questo sono circa 45 anni che abitiamo insieme a stretto contatto l'uno con l'altro l'altro. Ora ci troviamo davanti a una possibile distruzione di tutto questo. Sono arrivato ad un punto in cui penso che il pregiudizio nei confronti dei rom e sinti scomparirà quando scompariremo noi culturalmente". 

 

In sottofondo si sentono gli schiamazzi dei più piccoli e la voce di Iaio che li rimprovera con un sorriso. Si ferma con le mani puntate sui fianchi: riguarda quella piazzola in cui un tempo c’era solo la sua roulotte e in cui ora c’è la sua casa. Non sa immaginarsi altro futuro se non questo. Che poi nella sua lingua, il Romanes, non esiste nemmeno la parola “futuro”. Eppure, per lui il Villaggio significa qualcosa di molto simile: un modo di abitare nel tempo, di ricordare e soprattutto di mantenere. 

Fotografie di Sara Bottino

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