Wimbledon non è solo un torneo. È un simbolo, un luogo che profuma di storia, di erba rasata al millimetro. Una sfida che ogni generazione di tennisti affronta in modo diverso. Perché negli anni il torneo si è evoluto, ha mutato la sua pelle, ma tradizione e fascino sono rimasti sempre gli stessi. Lo sa bene Corrado Barazzutti, uomo di Davis, ex n. 7 del mondo e campione che su quei prati ha vissuto le sue prime difficoltà e ha imparato, col tempo, cosa significa davvero adattarsi. «Non avevo mai visto l’erba in vita mia», ci racconta sorridendo, parlando della sua prima volta. «È stata un’esperienza completamente diversa, difficile, spiazzante. Ma indimenticabile». Dal 2024 l'ex campione dà una mano nel team di Lorenzo Musetti, affiancando per alcune settimane l'anno il coach Simone Tartarini.
Incontriamo Barazzutti nella sua accademia di tennis immersa nel verde di Roma, a Castel di Decima, per parlare del celebre torneo, uno dei quattro del Grande Slam. Insieme a noi riflette sul passato e sul presente del torneo, ripercorrendo la sua prima volta sull’erba, l’evoluzione dei campi, la scomparsa dei giocatori di servizio e volée. Con uno sguardo all’edizione appena cominciata: tra Lorenzo Musetti che può arrivare lontano, Jasmine Paolini che sogna, Fabio Fognini che si ritrova Carlos Alcaraz al primo turno e la suggestione di un derby Sinner - Musetti ai quarti di finale.
Corrado Barazzutti, partiamo dal suo ricordo di Wimbledon come giocatore. Cosa rappresentava per voi campioni italiani, negli anni in cui eravate al vertice?
«Era un’icona. Già allora, insieme a Roland Garros e US Open, rappresentava uno dei tornei più importanti al mondo. Non dimentichiamo che anche gli US Open, all’epoca, si giocavano sull’erba, a Forest Hills. Quella superficie era molto più diffusa, e gli australiani, che erano cresciuti su quel tipo di campi, si trovavano molto più a loro agio rispetto a noi europei. Ma Wimbledon era Wimbledon: il torneo per eccellenza su quella superficie. Ed era considerato un appuntamento imperdibile, come lo è oggi».

Com’è stata la sua prima volta a Wimbledon?
«Difficile. La prima volta che ci ho giocato fu negli Juniores, dopo aver vinto il Roland Garros Junior. E devo dire che all’inizio è stato complicato: campo veloce, rimbalzo basso, si scivolava... Era difficile capire come approcciare la palla. Giocare sull’erba è completamente diverso rispetto alla terra o al cemento. Ci vuole tempo per adattarsi».
Ci racconta meglio quelle sensazioni? Lei è arrivato in semifinale a Parigi e a New York, ma sull’erba londinese ha faticato di più. Come se lo spiega?
«L’erba richiede un gioco e una preparazione molto specifici. È una superficie particolare, insidiosa, e richiede movimenti, timing e strategie diverse rispetto ad altre superfici. Io ci giocavo pochissimo, quasi nulla, e arrivavo a Wimbledon senza una vera preparazione. Il mio gioco, poi, non era adatto per brillare su quella superficie. Almeno all’inizio. Con il tempo ho imparato ad adattarmi, anche se non sono riuscito ad andare oltre il secondo turno».
In effetti a partire dal 2001 a Wimbledon si utilizza un tipo di erba diverso e una preparazione dei campi differente, due aspetti che hanno reso la superficie meno veloce.
«È proprio questo il punto. È diventata una superficie più lenta. Una volta era tutto diverso: servizio e volée, risposta e volée. La palla schizzava via. Oggi no, si vedono scambi più lunghi. E sono scomparsi i giocatori di serve and volley. È un altro tennis, la palla rimbalza più alta e per questo si gioca maggiormente da fondo. Basta guardare l’erba: prima si consumava a rete, adesso è tutta rovinata dietro la linea di fondo».
Anche i montepremi sono cambiati.
«All’inizio erano diversi, certo. Ma già negli anni Settanta il tennis con giocatori come Connors, Borg, Nastase, il tennis è cresciuto tanto e ha attirato l’interesse delle aziende, anche italiane. I prize money sono aumentati gradualmente. E alla fine non erano così bassi, considerando il potere d’acquisto di allora. Certo, oggi le cifre sono davvero enormi».
Arriviamo all’edizione attuale. Intanto come sta Lorenzo Musetti?
«Il dolore all’adduttore è scomparso, quindi direi bene. Lorenzo ha una sensibilità speciale e un talento di adattamento rapidissimo. Lavora con un coach eccellente come Simone Tartarini, e io do una mano nel team per un numero di settimane all’anno, portando la mia esperienza da ex giocatore e da coach».
Debutto con Basilashvili, poi potenzialmente Sonego o Faria. Agli ottavi Shelton, e ai quarti un possibile incrocio con Sinner…
«Basilashvili è un avversario da prendere con le pinze, ma Lorenzo ha le armi per vincere. Il secondo turno potrebbe essere più duro: se tocca a Sonego, che sull’erba gioca bene, sarà una sfida impegnativa. Poi vedremo. L’erba è piena di trappole, non è il caso di guardare troppo avanti».

Ma un quarto con Sinner sarebbe una gran bella partita per tutti gli appassionati.
«Sarebbe bello e me lo auguro, ma prima bisogna arrivarci. Sono tutte partite da giocare e anche agli ottavi Shelton può essere un brutto cliente. Giocatore emergente, forte anche sulla terra. Musetti sa come muoversi sull’erba, ma serve sempre massima concentrazione».
A proposito di Sinner, il ko con Bublik ad Halle deve preoccupare?
«No. Può capitare, sull’erba soprattutto. Jannik resta il numero uno, ha una mentalità impressionante e una tenuta mentale da fuoriclasse. Non è un segnale d’allarme, anzi, può essere uno stimolo prezioso. Una lezione utile per affrontare Wimbledon ancora più concentrato e determinato».
Fognini invece si ritrova al primo turno Alcaraz, quando magari avrebbe voluto trascorrere questa fase finale di carriera con più tranquillità. Che ne pensa, lei che l’ha conosciuto e lo ha guidato nella vittoria di Montecarlo?
«Beh, adesso io non so quando Fabio deciderà di smettere con il tennis, mi auguro che continui finché ne avrà voglia e passione. È un giocatore bellissimo da vedere, un talento puro e se ha ancora motivazioni è un bene per il tennis. Ma se fosse il suo ultimo Wimbledon quale palcoscenico migliore del Centrale di Wimbledon contro Alcaraz? Sull’erba può ancora dire la sua. Farà una bella partita».
E Jasmine Paolini? Cosa dobbiamo aspettarci quest’anno?
«Jasmine ha fatto la finale lo scorso anno, quindi può arrivare lontano anche stavolta. Se gioca come sa, può battere chiunque. Sarebbe fantastico per l’Italia vedere Jasmine vincere Wimbledon. Abbiamo il numero uno al mondo, chissà che non arrivi anche una vincitrice italiana tra le donne».
Chiudiamo con due domande personali. Quale punto o partita della carriera rigiocherebbe se potesse tornare indietro?
«Mmh, un punto... Forse un set… Mi rigiocherei quel 5-7 contro Tomas Smid in Coppa Davis a Roma. Vincevo 5-2 al quinto, ma dopo l’interruzione per pioggia persi 7-5».
E volendo riprendere il Barazzutti ventenne per regalargli il colpo di un top player dell’era moderna, cosa sceglierebbe?
«Prenderei un servizio. E per essere totalmente al sicuro sceglierei quello di Roger Federer: classe, precisione, efficacia. Perfetto per ogni superficie».