«Dalle famiglie viene generato il futuro dei popoli» diceva all’inizio di giugno papa Leone XIV ai partecipanti del Giubileo delle famiglie. Ma per le persone Lgbt talvolta il nido familiare offre un futuro asfittico, e casa può diventare un luogo di giudizio e dolore. Un problema che la Chiesa cattolica fatica ancora a vedere, come dimostra il mancato sostegno a servizi come Gay Help Line, il numero verde gratuito per contrastare l’omotransfobia supportato, invece, dalla Chiesa valdese e dall’Istituto buddista italiano Soka Gakkai. Il numero verde ha stimato che in 19 anni oltre il 41 per cento delle persone che ha chiesto aiuto ha denunciato violenze in ambito familiare, e il 17 per cento ha perso il sostegno economico dei genitori.
È da questa ferita che nasce Casa Arcobaleno, il progetto di Spazio Aperto Servizi in collaborazione con il Comune di Milano. Nato nel 2019 da una telefonata fra Maria Grazia Campese, presidente della cooperativa sociale Spazio Aperto Servizi, e l’allora assessore alle Politiche sociali, alla salute, ai diritti del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, Casa Arcobaleno mette a disposizione sei appartamenti per offrire accoglienza a giovani persone Lgbt allontanate o discriminate dalla propria famiglia d’origine. E così un luogo nato per essere una risposta pratica a una forma di disagio, si è trasformato in un punto di partenza, centro di formazione e, cosa più importante, luogo intimo di scoperta e cura del sé. Lo racconta fino al 29 giugno “Vedere l’arcobaleno”, un’esposizione fotografica allestita presso La Fabbrica del Vapore con il Patrocinio del Comune di Milano: un reportage fotografico che, attraverso la fotografia di Enzo Ranieri, scruta gli anni di lavoro dell’équipe di Casa Arcobaleno e permette di restituire, attraverso le immagini, la forza e la complessità delle storie: «La mia genesi era narrativa, un racconto del tempo di accoglienza, sospeso. In fondo, si tratta di ragazzi che scappano di casa appena compiuti i diciott’anni» spiega Ranieri, che ha iniziato il progetto nel 2024 entrando in punta di piedi in quello che è un luogo maieutico di travaglio e rinascita.
«All’inizio pensavo di chiamare il reportage Tempo sospeso – puntualizza Ranieri – perché in Casa Arcobaleno il tempo ha bisogno di sostegno e accoglienza, e gli educatori in questo senso fanno un lavoro immenso. Poi la direzione creativa, a cura di TEMA, ha suggerito una narrazione che togliesse i miei filtri, e così abbiamo lavorato su un concetto cromatico». Da ciò il nome Vedere l’arcobaleno: «I colori rappresentano gli stati d’animo, anche laddove non c’è una relazione diretta cromatica. Questo spettro dell’animo riflette concetti di straordinarietà in contesti di apparente normalità. Da padre di una ragazza che ha l’età di molte delle persone accolte, ho scoperto l’importanza dell’ascolto». Accogliere – ricorda Maria Grazia Campese – richiede infatti impegno: «Il fotografo e gli altri sono entrati con delicatezza nella quotidianità di queste giovani persone, perché emanciparsi da una situazione del genere non è semplice se non si è fatto un lavoro su di sé e di elaborazione dei traumi. Vedere l’arcobaleno per noi significa conoscersi e prendere in mano la propria vita senza vergognarsi». Passare dai sad eyes ai true colors dei propri arcobaleni, come cantava Cindy Lauper nell’omonima canzone, non è semplice.
Negli appartamenti gestiti da Casa Arcobaleno, i membri imparano gradualmente di nuovo a darsi fiducia e a condividere un’esperienza, anche attraverso l’uso di parole depennate dal loro piccolo vocabolario familiare, come “grazie” e “scusa”. Perché, nelle loro vite sovraesposte, la quotidianità è piena di ombre da disinnescare come «esploratori di buio come i gufi», per mutuare un verso alla poesia di Sylvia Plath.
Il ruolo degli educatori è fondamentale: «Si tratta di figure di riferimento per i ragazzi, che sono accompagnati in tutto, dall’impostazione di una routine quotidiana al supporto emotivo e psicologico. Talvolta, laddove si vede un margine, anche con la possibilità di attivare un canale di dialogo con la famiglia di origine» spiega Campese, che in questi anni ha toccato con mano la genesi del pregiudizio. Nella maggior parte dei casi, infatti, vincono le convinzioni religiose: «Nei contesti familiari entra in gioco la religione in modo trasversale. Non c’è un tessuto sociale più incline rispetto a un altro: sia contesti più poveri che bene istruiti possono fare appello alle loro convinzioni per chiudersi. Per questo ciò che manca oggi sono gli strumenti. Va ancora creata una cultura della prevenzione e formazione» puntualizza Campese. La mancanza di formazione all’inclusività è una questione ancora aperta nel nostro Paese: da un’indagine Istat sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone Lgbt realizzata nel 2022, emerge che circa otto persone su dieci hanno sperimentato almeno una forma di micro-aggressione legata al loro orientamento sessuale in ambito lavorativo.
Vedere l’arcobaleno ha il merito di usare l’arte per educare lo sguardo. Molte fotografie, spiega Ranieri, sono in bianco e nero: «Perché il bianco e nero toglie il tempo. E così le foto creano uno spazio di osservazione che va al di là della percezione diretta delle cose. A volte l’assenza dei colori aiuta a educare lo sguardo, crea un approccio più riflessivo. I colori determinano sempre un immaginario. Toglierli significa eliminare le sovrastrutture». E una struttura che aiuti a superare il superfluo che appesantisce e soverchia è il cuore della missione di Casa Arcobaleno. Se l’accoglienza richiede a monte uno spazio per realizzarsi, casa non è un posto dove riversare narrazioni compiacenti di sé. Al contrario, è uno spazio che restituisce il grande valore della normalità, quando nella quotidianità tutto può finalmente accadere.