Attualità
12 agosto, 2025Non solo West Nile. Il problema delle “zanzare virali” si sta ripresentandoE lo fa con uno spettro molto più ampio e pericoloso, che ha come vettori sia le nuove specie immigrate sia quelle storiche, contagiate, però, da patogeni esotici. Come il Culex pipiens infettato dagli uccelli all’origine dell’allarme
West Nile, Febbre Gialla, Dengue, Chikungunya, Blu Tongue, malaria (di ritorno) e chissà che altro ci riserva la biologia sconvolta dal clima. Chiamiamole come volete, ma il problema non sono queste febbri e i microorganismi che le scatenano, ma l’untore che ce le passa. Quella “culex”, che solo un eco-ottimista come il poeta latino Virgilio poteva immaginare salvasse, in uno slancio di generosità, un pastore insidiato da un serpente, destandolo con la sua puntura. Perché per il resto del mondo animale, le zanzare sono soltanto uno dei più straordinari fastidi usciti dal cilindro dell’evoluzione. Macchine perfette per succhiare il sangue e sparire, lasciandosi dietro, se va bene, gonfiori, pruriti e dermatiti, e se non va bene, l’irreparabile. Ad attrarre le femmine da distante, come droni a ricerca automatica del bersaglio – i maschi si limitano a succhiare i fiori – è l’anidride carbonica, emessa dal corpo con il sudore e la respirazione. Una volta vicine all’obiettivo, affondano il loro ago boccale nell’epidermide e iniettano una saliva anticoagulante e anestetica che infiamma la zona, alterando la permeabilità dei capillari e facendo affluire più sangue: in sostanza, una microemorragia che permette all’insetto-vampiro di abboffarsi di proteine in vista delle fatiche riproduttive.
Ma il fastidio del prelievo è nulla, in confronto alle malattie che iniettano e che uccidono ogni anno nel mondo più di 700 mila persone: 450 mila per la sola malaria e il resto, appunto, per encefaliti e meningiti da arbovirus. Quanto ai Paesi mediterranei, ancora nel secolo scorso, le cose non andavano tanto meglio. Della malaria, o meglio, del suo agente, il plasmodio, ci siamo liberati solo nel primo Dopoguerra, irrorando le aree umide con montagne di ddt e sterminando, così, a caro prezzo per la natura, l’anofele, che lo inocula. Questa specie di ditteri emofaghi e gli effetti peggiori del loro morso sembravano, dunque, acqua passata, sebbene l’alta incidenza italiana della talassemia, una malformazione dei globuli rossi selezionata proprio dal plasmodio, continuasse a ricordarci i tempi in cui il cosiddetto paludismo mieteva migliaia di vittime dal Veneto al Sud della Penisola. Invece, il problema delle “zanzare virali” si sta ripresentando. E lo fa con uno spettro molto più ampio e pericoloso, che ha come vettori sia nuove specie, immigrate, della grande famiglia dei culicidi, sia specie storiche, contagiate, però, da patogeni esotici. Tra questi, appunto, il virus West Nile, trasmesso dalla zanzara comune, Culex pipiens, e isolato per la prima volta in Uganda nel 1937, che quest’anno sta seminando il panico, forse più del dovuto, anche se, ripensando al Covid e alle prossime pandemie, il timore è forse più utile dell’indifferenza.
Le cifre italiane del West Nile si possono leggere in molti modi, ma obiettivamente non sono da paura: quest’anno una novantina di casi, con 13 morti. Negli ultimi tre anni, la media è di 400 casi, con 20-30 decessi. È vero che la mortalità calcolata su questi dati, pari al 5-6 per cento e addirittura al 10 per l’anno in corso, sarebbe spaventosa, se riferita allo 0.3-09 per cento del Covid. Ma i numeri non fotografano la realtà, perché il West Nile è quasi asintomatico: solo in un caso su cento dà una febbriciattola con raffreddore, e solo in una persona infetta su 150 raggiunge il sistema nervoso centrale per causare, ma non è scontato, conseguenze più gravi, fino all’encefalite o alla meningite, che nei soggetti deboli, anziani, o immunodepressi, possono risultare fatali.
Se si facessero test a tappeto, verrebbero fuori milioni di sieropositivi. Ma non si fanno, e anche per questo dare una logica al vagare dei focolai di West Nile tra Nord, dove sono comparsi all’inizio del secolo, e il Centro-Sud, dove ora sono più numerosi, non è facile. Il ministero ha disposto che le regioni a rischio attivino monitoraggi epidemiologici ed entomologici, nonché esami veterinari sulle carcasse di uccelli. L’allarme vale soprattutto per le 31 province dove la febbre del Nilo è ufficialmente endemica, tra le quali Roma, Napoli, Torino e Venezia. Uno dei più autorevoli specialisti in materia, il professore Andrea Crisanti, senatore Pd, fotografa così la situazione: «Corriamo un rischio medio basso, ma lo affrontiamo con noncuranza e ignoranza», e definisce l’intervento del governo «sciatto, tardivo e inutile». «Sembra ignorare la dinamica di trasmissione, perché, prima di colpire l’uomo, il West Nile deve diffondersi negli uccelli. Sono loro, il serbatoio della malattia. L’uomo, invece, il virus non lo può trasmettere. Dentro di noi, si moltiplica male, anche se esistono casi rarissimi di infezione da trasfusione, trapianto, e placenta, che giustificano alcune precauzioni sanitarie. Gli uomini e anche i cavalli, per il Nile, sono un vicolo cieco ed è questo che rende improbabile il salto di specie: la zanzara non s’infetta se punge un uomo o un equino, ma solo se punge un uccello. E la probabilità è massima in primavera, quando, i migratori arrivano nelle zone umide e il West Nile circola e carica l’avifauna e le zanzare. L’uomo si infetta in una fase successiva. Perciò, se faccio partire il monitoraggio in aprile o maggio, e trovo nella trappola una zanzara piena di virus, posso bloccare il focolaio spargendo poco insetticida, con meno danni all’ecosistema. Ma se corro ai ripari a luglio, come ora, non serve a nulla».
L’unica regione a seguire lo “schema Crisanti” è il Veneto, dove tra l’altro lui è stato per anni responsabile della sanità pubblica. «Nel 2000, sono stati i primi a essere colpiti da un focolaio importante di West Nile, che si è ripetuto nel 2012 e 2018, e hanno fatto tesoro dell’esperienza, con un controllo capillare degli ambienti umidi. Questa primavera, hanno messo 57 trappole per zanzare e sottopongono tutti i donatori di sangue al test Nat di sieropositività, per proteggere i destinatari, che sono per definizione i più fragili. Così, si evita di sospendere trasfusioni e trapianti». Facile profezia, l’Istituto Zooprofilattico della Lombardia e dell’Emilia-Romagna ha appena trovato una poiana e una cornacchia morti di West Nile vicino a Lecco. Dopo di che, il Centro Nazionale del Sangue ha esteso anche a Varese e Como le misure straordinarie, tra cui lo stop di un mese ai donatori che abbiano trascorso anche una sola notte nell’area di quarantena.
Ma, come dicevamo, sotto osservazione non c’è solo il West Nile. L’Iss avverte che il clima sempre più caldo-favorisce la naturalizzazione di altre zanzare aliene (e pure di zecche) vettrici di virus molto più maligni degli attuali. Tra questi, Dengue e Chikungunya, che, loro sì, passano senza batter ciglio da uomo a uomo. Per Crisanti, è l’ennesimo buco della sanità tricolore. «Da 3-4 anni abbiamo casi autoctoni, cioè non importati, di Dengue. Può metterci davvero in ginocchio, perché ha una mortalità del 3%. E il ministero non ha fatto nulla per capire le ragioni di questa comparsa».
Da Legnaro di Padova, sede dell’Istituto Zoofilattico Sperimentale delle Venezie, Fabrizio Montarsi, responsabile del laboratorio di entomologia profilattica, definisce il mancato arrivo del Dengue, o il suo ritardo, un colpo di fortuna: «L’anno scorso abbiamo contato 200 casi a Fano e in Abruzzo. Dopo aver disinfestato contro la zanzara tigre, il focolaio si è spento, ma poteva andare molto peggio».
Sui rimedi, a parte le solite difese della nonna a base di cortine, spray, e accurata eliminazione delle piccole raccolte d’acqua in casa, l’alternativa oscilla tra la lotta al vettore e quella al virus. «Ma i zanzaricidi sul mercato sono sempre di meno – spiega Crisanti – perché risultano tossici per l’ambiente e svilupparne di nuovi a minor impatto richiede tempo e denaro». Montarsi aggiunge che anche quelli biologici, come il bacillo turingiense, «pur sostenibili, selettivi ed efficaci contro le larve, durano poco e vanno ridati spesso».
La soluzione finale potrebbe arrivare dalla genetica: si tratta di catturare i maschi, sterilizzarli ai raggi X e liberarli, in modo da rendere infeconde le uova deposte dalle femmine. «È una tecnica sperimentale che ha già mostrato di poter ridurre il Dengue nei Paesi sudamericani – osserva Montarsi – però si giustifica solo con alti contagi e necessita di verifiche». Infine, contro il West Nile e in futuro gli altri arbovirus, ci sarebbe il buon vecchio vaccino che infatti si usa da almeno dieci anni, ma solo per proteggere i cavalli. «Gli equini soffrono più di noi per i sintomi anche blandi della febbre, ad esempio non possono stare sdraiati a lungo, altrimenti muoiono soffocati dal peso degli organi interni sui polmoni. Per loro, la vaccinazione è di routine». Routine vuol dire milioni di dosi, a un prezzo medio, dicono in un grande paddock, di 35 euro l’una. La conclusione è chiara: il vaccino umano arriverà quando, per l’industria, varrà la pena di investire nel suo sviluppo, cioè non prima di una bella epidemia.
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