Attualità
19 agosto, 2025Siamo qui, siamo tanti, siamo tra voi, siamo parte della comunità. I nostri pochi soldi contribuiscono a tenere in piedi un’economia di cui non siete più all’altezza. Dovreste mostrarci un po’ di riconoscenza, se non altro per quei pochi soldi che vi portiamo
Inutile che state lì a lamentarvi della nostra presenza e a guardarci di sottecchi con la puzza al naso. I vostri nasi, poi, ve li raccomando. A parte che ve li rifate, e pure male, a dirla tutta. Cosa ve li tirate in su, che si capisce che non c’entrano niente con le facce che vi ritrovate e poi via, se c’è un nasino sputtanato quello è il naso alla francese? Guardatevi un po’ allo specchio, invece di fissarmi i calzini corti di nascosto. Porto i calzini corti con i sandali e gli shorts tipo mutandoni del nonno, e allora? Del mio naso, per esempio, tanto per restare in tema, mica mi vergogno.
È un po’ grosso, forse, direi camuso, ma tutto sommato regolare, anche se da ragazzo mi sono beccato una pallonata in faccia durante una partita di pallavolo e il setto mi si è un po’ deviato, tant’è che sono trent’anni che io e mia moglie dormiamo in camere separate perché russo come un ubriacone, e ora che siamo in vacanza quella poverina deve mettere i tappi nelle orecchie, che poi non servono a molto. In più, da un po’ di tempo ogni tanto sulla punta del naso mi escono dei bozzi che non capisco da dove vengano e sono anche pieno di piccole arterie rosso catrame visibili appena sotto la superficie dell’epidermide, ma credo siano parte delle tante metamorfosi a cui si va incontro con la vecchiaia, quindi non ho problemi ad ammettere che da vicino il mio naso non dev’essere un bello spettacolo. E ciò nonostante preferisco il mio naso in peggioramento progressivo a un falso francese. Ditemi chi sarebbe il vero cafone, tra i due.
Stamattina a un semaforo uno di voi, vestito come un manichino in saldi e una faccia che (giuro) mi ricordava una borsa dell’acqua calda, ci ha squadrato dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa. Faceva un caldo da serra, e mia moglie se ne stava accanto a me con la maglietta sollevata fin sotto al seno per lasciare scoperta la pancia sudata (che va be’, è un po’ a rotoli, ma cosa pretendete da una donna di sessantadue anni che ha messo al mondo quattro figli?) per farle prendere un po’ d’aria. Sarà pure un suo diritto far areare la panza, giusto? Oppure esibirla è diventata un reato, oltretutto nella patria di Raffaella Carrà, la prima soubrette mondiale che ha sdoganato l’ombelico libero in televisione? Quanto a me, avevo la mia solita tenuta da tour europeo: canottiera, pelazzo al vento, cappellino di paglia con visiera, occhialoni da sole Calvin Klein pezzotti, braghe verde militare con patta slabbrata, calzini stavolta lunghi su sandali francescani e marsupio modalità cinto d’ernia (vaga citazione di Malcolm McDowell in Arancia Meccanica).
La mia signora, pure in pantaloncini, maglietta di Hello Kitty, scarpe da ginnastica, iPhone al collo e capelli raccolti in uno chignon spettinato, pativa il caldo più di me mentre quello stramaledetto semaforo, Dio gli mandi un corto circuito, s’era inchiodato sul rosso allo scopo di rimarcare il distanziamento sociale, e davvero non capivo cosa ci trovasse, quel cretino, in una simile scenografia urbana; dal mio punto di vista, anzi, mi pareva dovesse essere lui, che continuava a spennellarci con gli occhi scandalizzato dal fatto che abitassimo il suo stesso pianeta a sentirsi in imbarazzo per essere vestito con giacca e cravatta, con la calura che c’era. Così, quando finalmente è scattato il verde e ci siamo incrociati a metà strada mentre le macchine intorno già strombazzavano senza motivo (e poi noi saremmo i cafoni), ho guardato negli occhi il citrullo in tenuta da uomo d’affari che adesso pareva un po’ meno arrogante di prima (forse temeva che gliene mollassi uno, se non ci levava gli occhi di dosso), e quando ci siamo trovati faccia a faccia ho finto di grattarmi la guancia per mostrargli il medio, di cui immagino si sia accorto.
Fate gli uomini di mondo, fate. Beh, ho una notizia per voi: il mondo è questa roba qui, adesso. Imparate a starci. Cosa pensate di rivendicare con quelle facce tolleranti, le vostre preziose città incafonite dal turismo di massa, forse? Il basso livello a cui vi staremmo trascinando anno dopo anno, estate dopo estate, giubileo dopo giubileo, bed&breakfast dopo bed&breakfast, colazione a sacco dopo colazione a sacco? Ma perché, prima che arrivassimo noi a bivaccare sui sagrati delle cattedrali e a occupare i vostri stabili condominiali trasformando in ostelli i vostri mono, bi, tri e quadrilocali, dimostrandovi che alla fine (e anche all’inizio) siete diventati un paese di affittacamere (altro che popolo d’inventori e di poeti); prima del nostro avvento – dicevo – vi prendevate così cura dei vostri monumenti, dei vostri giardini, delle vostre ville comunali e del vostro patrimonio archeologico? A giudicare da quello che si vede in giro, direi proprio di no.
Il fatto è che troppo facile discriminare un overtourist. C’è poco da sfottere, sapete. A parte il fatto che non mi sembrate dei Lord Brummel, quando c’incrociamo sui marciapiedi o nelle metropolitane. Gli abiti che indossate non sono mica tanto diversi dai nostri, e neanche più costosi. Anzi, a dirla tutta non c’è mica tutta ’sta differenza fra il vostro look e (neanche il nostro, ma) quello dei neri che si piazzano davanti ai supermercati in attesa che gli elargiate qualche moneta mentre sono lì che scorrono le foto sugli smartphone. Ma l’avete capito o no che i questuanti hanno il cellulare come il vostro? Che indossano le stesse scarpe da ginnastica, le stesse polo più o meno di marca (intendo le marche che oggi sono alla portata di tutti, mica le Lacoste di una volta: il marchio, oggi – lo chiamano griffe che fa un po’ franscese molto scic ma sempre marchio è – non ha più l’allure di un tempo, tant’è vero che si è estinta la prassi della volgarizzazione: tutti i marchi che caratterizzavano merceologicamente i prodotti fino a usurparne il nome per uso continuato, come l’aspirina, lo Scottex, la Nutella, il cellophane, i Kleenex, le sottilette, appartengono ormai al passato: il nuovo marchio volgarizzato è quello che tutti possono permettersi per apparire, democratizzando il lusso); lo avete capito o no che quel divario sociale che ancora vorreste rimarcare con i vostri sguardi sprezzanti e fintamente distratti ha smesso di esistere? Che è stato il libero mercato a cui tanto aspiravate a creare questa uguaglianza che oggi vi fa orrore?
Giorni fa leggevo un’intervista a un ristoratore che dichiarava, scandalizzato, che molti di noi overtourist a pranzo ordinano un solo piatto di pasta per dividerselo davanti ai loro occhi sbigottiti e deprivati di un lucro più alto. Ma ditemi: sono poi così lontani i tempi in cui in Italia si ordinavano le mezze porzioni, come si vede in tanti film dell’epoca (uno su tutti: C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, dove a steccarsi le amatriciane e le confezioni famiglia di sigarette erano Vittorio Gassman, Stefano Satta Flores e Nino Manfredi, mica noialtri turisti in pantaloncini e calzini lunghi che tanto snobbate), che certo non impedivano alla gente che non poteva permettersi di pagare un pranzo completo di sedersi al tavolo di un ristorante e anzi gettavano un ponte fra ristoratore e cliente, dove il primo aveva bisogno del secondo perché nessuno dei due se la passava tanto bene e dunque si sostenevano a vicenda in un patto sociale di mutua assistenza, sì che non c’era nulla di cui vergognarsi nell’ordinare mezza carbonara, che per di più costituiva un argine al problema del sovrappeso?
Ma anche a prescindere da impulsi solidali (evidentemente estinti), la domanda è: vi fanno tanto schifo i non ricchi? Il consumo di massa, che poi è quello che arricchisce il mercato e lo sregola, lo sfrangia e lo moltiplica in miriadi di attività a basso costo deprimendo la qualità dei prodotti e dei servizi, non è forse figlio di una società che non paga le tasse, che non crede più alla rappresentanza politica, che ha creato nuovi schiavi in bicicletta facendoli diventare una tendenza merceologica dopo il dramma di una pandemia che avrebbe dovuto farci diventare – così dicevate, allora – tutti migliori?
Siamo i portatori di una New Economy, versione discount di quella finanziaria di una ventina d’anni fa, quando tutti giocavano in borsa dai loro computer, a casa, e guadagnavano e perdevano come ludopati alle slot machines. Viaggiamo con compagnie low cost, che spesso ci lasciano a terra a tempo indeterminato (giuro: una volta, destinazione Palermo, la compagnia con cui viaggiavamo, o meglio avremmo dovuto viaggiare, perché dopo sette ore di supplizio scendemmo dall’aereo esasperati; roba che non sapevano più che palle raccontarci, dopo averci fatto cambiare due aerei), voli che costano un terzo dei treni ad alta velocità; dormiamo nelle vostre seconde case adibite (per usare un eufemismo, perché affittate qualsiasi tugurio con due mobili a basso prezzo e gli sciacquoni chimici inchiodati alle pareti di quella che una volta era la stanza degli ospiti) a bed&breakfast a prezzi indecenti, mangiamo cibo di scarsa qualità che adesso si chiama street food ma sempre di cibo da rosticceria si tratta e tutto questo, che ve ne vergognate o no, è l’economia turistica di questo tempo. Dovreste mostrarci un po’ di riconoscenza, se non altro per quei pochi soldi che vi portiamo, e che messi insieme sono tanti e non vi fanno certo schifo.
Siamo qui, siamo tanti, siamo tra voi, siamo parte della comunità. I nostri pochi soldi contribuiscono a tenere in piedi un’economia di cui non siete più all’altezza. Non ci ringraziate: imparate ad accettarci. A volerci un po’ di bene. Anche se siamo inopportuni, non siamo poi così diversi. E voi, anche se vi fa male ammetterlo, non siete ricchi. E allora festeggiamo, incateniamoci in una lunga passerella da avanspettacolo: siamo tutti qui, come cantava la vecchia sigla dei cartoni animati di Braccobaldo.
Tutti i libri di Diego De Silva sono pubblicati da Einaudi. Con l’ultimo, “I titoli di coda di una vita insieme”, ha vinto il Premio Viareggio
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