Perché il giornale deve tornare a essere la preghiera laica del mattino. Parla il regista di “Paesaggio civile”, documentario sui 60 anni dell’Espresso. Con Eugenio Scalfari, Umberto Eco e Roberto Saviano

Il potere della scrittura, il potere dei giornali, il potere. Ma anche gli imbecilli del web, il gossip, le bufale. La malinconia, la nostalgia. Il rigore «dei comunisti di una volta, che nelle case non avevano i coprilume, ma lasciavano le lampadine appese a un filo», il ricordo della «mia prima Bustina e di un matrimonio lungo 50 anni» e quel piacere inesauribile di esercitare un mestiere senza tempo, capace di guardare avanti, di «influire sulla società». Nelle conversazioni di “Paesaggio civile”, il documentario intenso e affettuoso di Roberto Andò, da un’idea dello stesso Andò e di Bruno Manfellotto, editorialista e già direttore del settimanale, che racconta “l’Espresso” in occasione dei suoi sessant’anni, c’è questo continuo passaggio tra pubblico e privato, tra intimo e universale, tra politico e personale. Come un giornale che entra nelle case.

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In onda su Sky Arte martedì 13 ottobre alle 20.20, prodotto da Angelo Barbagallo e musicato da Nicola Piovani, il docu-film è un confronto con Eugenio Scalfari, Umberto Eco e Roberto Saviano, protagonisti della storia culturale dell’Italia e coltivatori della scrittura civile.
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Con loro il regista affronta i grandi temi del nostro Paese, dal senso del potere all’infiltrazione della criminalità organizzata, dalla fuga dal Sud all’immigrazione dei nostri giorni, dalla corruzione dilagante al fascino dell’antipolitica. «Il film è un racconto circolare», spiega Roberto Andò. «Si apre su una veduta romana, un paesaggio appunto, su quella città che “l’Espresso” ha descritto con puntualità chirurgica, dalla celebre inchiesta di Manlio Cancogni del 1955 alle recenti copertine sullo sfascio Capitale. E su Roma si chiude, con Scalfari che invita la sinistra ad uscire dai palazzi del Potere di questa città e ricominciare a volere il bene comune. Un giro intorno a quel paesaggio per interrogare il mondo esterno».

Roberto Andò, come nasce l’idea di questo documentario?
«Quando Bruno Manfellotto mi ha chiesto di trovare un’idea per raccontare “l’Espresso” e i suoi sessant’anni, ho subito pensato di non voler fare un lavoro celebrativo. Per questo bastava la bellissima mostra fotografica (al Vittoriano di Roma fino al 27 novembre, ndr), un viaggio puntuale attraverso le immagini e gli articoli del giornale che sono riusciti nel tempo a raccontare questo Paese. Il mio lavoro doveva partire da un assunto diverso: quello del dubbio, degli umori, delle sensazioni con cui i tre protagonisti del film hanno attraversato la storia a modo loro. Tre persone che si interrogano senza una risposta».

Come è arrivato a scegliere questo tipo di espressione, quello della forma conviviale, dello scambio di parole per raccontare un mondo?
«Quando ho cominciato a dar forma al progetto, mi sono ricordato di “My dine with Andre” di Louis Malle, in cui un regista e un intellettuale conversano a cena, per tutto il film. E mi sono detto che era proprio quella la forma che volevo dare a “Paesaggio civile”».
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Scalfari, Eco, Saviano. Tre testimoni, legati a doppio filo a “l’Espresso”, uniti in una conversazione.
«Il film è incentrato su tre persone che a titolo diverso scrivono da sempre. L’idea era quella di mettere insieme tre testimoni del tempo intorno agli umori e ai legami che possono nascere in maniera estemporanea tra pubblico e privato. Scalfari “l’Espresso” lo ha inventato e quindi è anche un omaggio a lui oltre ad essere un suo ritratto. Poi Umberto Eco, perché da intellettuale e scrittore ha esercitato proprio il ruolo di scrivere sul giornale, ha sempre creduto nel mezzo come veicolo adatto al suo modo di comunicare. E Saviano, per altri motivi storicamente diversi, pur essendo un altro polo generazionale, ha fatto irruzione nella scena attraverso i giornali, ha sempre parlato attraverso di essi. Così la conversazione a poco a poco è venuta a coincidere con il tema “perché si scrive sul giornale?”.
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Perché si scrive, certo, ma viene da chiedersi anche perché si legge. In che modo è cambiata la fruizione dei giornali nel tempo?
«La conversazione che anima il film vuole riproporre il gusto perduto della concentrazione, del voler parlare delle cose, con profondità, con gli occhi attenti all’esplorazione. Un recupero insomma di quel piacere della lettura che oggi sta assumendo sfumature molto diverse rispetto al passato. Hegel diceva che il giornale è la preghiera del mattino per il laico. Ma questa dimensione si è smarrita, come se i giornali stessero intraprendendo una continua lotta per risalire dall’indistinto. Cancogni era uno scrittore che faceva il giornalista. E da lì bisogna ripartire, misurando il cambiamento epocale. Per avere un futuro bisogna agire su di esso e non solo subirlo».

Che ruolo ha avuto in questo “l’Espresso”?
«I giornali, dice Umberto Eco, oggi hanno abbandonato la complessità. Il mezzo viene superato dal mezzo successivo, la stampa dalla tv, la tv da Internet. Da questo punto di vista  viene fuori che “l’Espresso” è stato un sismografo della sensibilità nuova dell’opinione pubblica in Italia, perché, come dice Scalfari, ha voluto fare un giornale di idee. Come una grande arca, dove vengono convocati quei cittadini che rappresentano la voglia di andare avanti. “L’Espresso” è stato un tentativo riuscito di contare sulle idee, è stato una sentinella».
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Eugenio Scalfari si rivolge spesso alla sinistra, nel corso della conversazione.
«Scalfari dà sentimento a delle ragioni civili ma misurandosi con degli aspetti esistenziali. È un cronista dei grandi fatti del mondo ma è sempre riuscito a mettersi in questione continuamente. Il settimanale è stato, nei suoi 60 anni, uno degli organi principali attraverso cui si è espressa quella sinistra inquieta, scintilla di una borghesia illuminata che si reinventa col passare del tempo. È inevitabile dunque che l’anima del film riguardi anche il suo senso e la sua azione politica. Non è un caso che Scalfari citando Bergoglio nell’ultima scena, parli di una sinistra che deve superare l’amore per se stessa per amare gli altri. Che poi è quello che dovrebbe fare anche il giornalismo».
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Quanto contano e hanno contato le opinioni dei giornalisti e delle testate sull’agire nel nostro Paese?
«A un certo punto Saviano descrive “l’Espresso” come il giornale che è riuscito sempre a mappare contraddizioni, vizi, corruzioni, ma al tempo stesso chiede a Scalfari se ha mai avuto la sensazione che in fondo il dibattito giornalistico non avesse influenzato più di tanto l’opinione pubblica. E proprio questo è il punto. Oggi ci troviamo in uno stato comatoso, e la sensazione è che i giornali non abbiano più opposto resistenza. Pensiamo solo a questo. Uno dei tratti distintivi de “l’Espresso” è che riusciva a raccogliere intorno a sé firme incredibili. Pasolini che scriveva la poesia agli studenti decideva di pubblicarla su “l’Espresso”. C’era una fiducia reale nei confronti del giornale. Oggi quel rapporto si è incrinato».

In fondo è anche un film sul malessere contemporaneo.
«In un certo senso sì. Il declino di oggi lo sentiamo sulla nostra pelle, quel malessere, quella sfiducia che si è creata con i vent’anni di potere berlusconiano oggi non riusciamo a scrollarceli di dosso».

Lei pensa che raccontare la storia di un Paese attraverso un giornale sia comprensibile per i giovani o ormai è un mondo, quello della carta, che appartiene al passato?
Il problema è solo sul livello della comunicazione. Non dobbiamo considerare i giovani come dei barbari solo perché usano Internet come mezzo principale. La sfida è doppia: sia per chi il giornale lo fa sia per chi il giornale lo legge. Chi lo legge dovrebbe essere provocato a non accontentarsi del livello basico del sapere, del puro gossip. Un tempo c’erano molti più lettori disponibili a salire sull’Arca di cui parlavamo mentre oggi quel rapporto implica una modifica dell’alfabeto, una rivoluzione linguistica. I giovani hanno altri modi di raggiungere le informazioni ma non per questo vanno minimizzati».

A chi si rivolge questo documentario?
«Vorrei che riuscisse a stimolare le persone curiose. I giovani innanzitutto, ma anche chi ha mille motivi per volerla accendere quella curiosità. Penso a persone diverse unite nella ricerca degli dèi perduti del grande Paese del giornalismo. E penso a quelli come me: sarei il primo che vorrebbe ascoltare questa conversazione».

Che augurio vuole fare a “l’Espresso”?
«Prima i giornali erano aperti sul mondo, oggi meno. Allora mi auguro che, anche in questo momento di forte crisi dell’editoria, “l’Espresso” continui nella sua missione: difendere quei valori che gli sono appartenuti per 60 anni. E che oggi sono un patrimonio di tutti».

Perché ha voluto fare questo film?
«Il documentario lavora sulle persone vere, non sugli attori. Allo stesso modo per me fare un film come questo, come una conversazione, ha avuto uno spirito inverso dalla finzione, proprio come il sentimento dei tre protagonisti. Ho provato il piacere di dare un contributo su un piano tangibile, la sensazione di essere vicino alla realtà. È stato un piccolo atto concreto. Sciascia, che è stato il mio maestro, diceva che la scrittura era una buona azione. Ecco. Per me è lo stesso: ho fatto questo film perché era una buona azione».

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