Qual è la prima cosa che farebbe una ragazza trasportata all'improvviso nel corpo di un maschio? Ci sono quelle che penserebbero di masturbarsi. Poi ci sono quelle che mentono. Ecco, il bello della serie francese “Le 7 vite di Léa”, su Netflix, è esattamente il punto di vista, che in questo caso diventa una sorta di manuale di istruzioni per l'uso dell'adolescenza. Perché puoi anche metterti d'impegno con produzioni e programmucoli (e dalle nostre parti ne sappiamo amaramente qualcosa, persino Pierluigi Diaco sta lavorando a un progettino dedicato al dialogo intergenerazionale, e fermiamoci qua) ma per parlare dei cosiddetti giovani, o ti sforzi di ragionare puntualmente come loro, oppure è tempo perso.
Léa non ama la vita, o meglio, non ha ancora ben capito se vale la pena cercarne un senso, e per uno strano scherzo del destino (ma l'idea viene tutta da un libro) cerca di risolvere il caso della scomparsa di un coetaneo avvenuta 30 anni prima, svegliandosi suo malgrado nei panni di uno dei comprimari della storia.
Sette giorni, sette episodi, sette vite appunto. In cui la protagonista va avanti e indietro dal 1991 a oggi, provandole un po' di ogni colore e forma. Si impegna a sciogliere i sensi di colpa atavici, cerca tracce di verità, cementifica l'amicizia, unisce i cuori, si strugge tra acidi, erba e pistole e cammina su quel filo struggente e infinitamente sottile tra il voler proseguire e il voler morire, così lontano, così vicino. In questo modo capisce persino i suoi genitori perché incredibile ma vero, sono stati giovani anche loro, come accade nelle migliori famiglie.
Un po' di ironia, un po' “Ritorno al futuro”, un po’ “Tredici” per la cadenza del racconto, che abbraccia un punto di vista ogni volta diverso, questa serie mette insieme in un gran calderone cose spesso incomprensibili per buona parte degli adulti, che in genere più crescono, più tendono a dimenticare che a 17 anni ci sono un sacco di capi e parecchie code e se capita che sfuggano fa parte di un gioco in cui non serve usare l'accetta come misura universale.
E il risultato è una sorta di traduttore simultaneo che la televisione nostrana ogni tanto farebbe bene a utilizzare quando si sente dalla parte giusta nel raccontare le nuove generazioni. Perché è chiaro che puntare alla reincarnazione calendarizzata per comprendere i tormenti adolescenziali non sia un consiglio plausibile, ma a volte farsi da parte e lasciare la parola a quei corpi marziani, potrebbe tornare oltremodo utile.