
Lo scorso martedì 24 maggio è toccato al successore di Profumo, Federico Ghizzoni. Niente consorti di mezzo questa volta, niente porte sbattute: si farà da parte quando verrà trovato un sostituto. Toni più soft, se non fosse che la sostanza tradisce la durezza del momento al vertice della seconda banca italiana, una delle più importanti d’Europa.
Pure Ghizzoni, 60 anni, farà infatti le valigie prima del termine del suo mandato, dopo un lungo periodo di tensioni, scontri, incontri segreti fra i soci. Lo testimonia un messaggio recapitato a Palazzo Chigi già due mesi fa da uno dei grandi azionisti, Aabar Investment, fondo sovrano di Abu Dhabi. Il senso, rivela una fonte a “l’Espresso”, era questo: vogliamo un nuovo management. Risposta: se potete, gradiremmo un italiano. Perché a Roma, al governo, uno spezzatino dell’unico gruppo bancario davvero internazionale d’Italia, non è che piacerebbe granché.
Una banca che prima congeda l’amministratore delegato e poi, a cose fatte, inizia a cercare un sostituto, come avvenuto nel consiglio di martedì 24, è un caso molto raro. Gli altri amministratori, in effetti, dovrebbero essere lì con un compito preciso, ovvero scegliere per tempo e controllare i manager a cui è affidata la gestione giornaliera. Trovarsi in mezzo al guado, senza un nome condiviso ma con varie candidature date già per vincenti a mezzo stampa, prima ancora che fosse affidato al presidente Giuseppe Vita (e a una società specializzata) il processo di selezione, conferma l’elevato livello di agitazione nel quale termina l’era Ghizzoni.
Se da tempo alcuni soci chiedevano un cambio, la situazione è precipitata negli ultimi mesi, in coincidenza con un caso ad alta tensione in cui l’Unicredit si è trovata coinvolta, il salvataggio della Popolare Vicenza. I fatti, in sintesi, sono questi. Lo scorso 17 settembre Unicredit aveva firmato un accordo per organizzare l’aumento di capitale da 1,5 miliardi di euro necessario per rimettere in carreggiata l’istituto veneto e permettergli di rispettare le richieste della Banca centrale europea (Bce). L’accordo prevedeva un paracadute: se le azioni della Vicenza non avessero riscosso l’interesse del mercato, sarebbe toccato a Unicredit comprarsele.
Il momento era delicato e, per il nuovo manager chiamato a guidare la popolare, Francesco Iorio, quell’impegno era vitale. Poteva infatti presentarsi di fronte alla Bce e alle agenzie di rating dicendo che, alla fine, i soldi sarebbero arrivati, perché alla peggio ce li avrebbe messi il colosso milanese. Questa primavera, poi, tutto cambia. Le banche impegnate a piazzare i titoli Vicenza fanno sapere che nessuno vuole comprarli e anche Unicredit si tira indietro.
Perché? Sul dietrofront circolano due versioni. La prima dice che l’accordo fra Unicredit e la popolare era stato firmato quando non c’era ancora stato il crac delle quattro banche del Centro Italia. Quando poi, tra fine 2015 e inizio anno, il quadro è peggiorato, sarebbero venute meno alcune condizioni, in particolare la prospettiva della quotazione in Borsa dei titoli dell’istituto, liberando Unicredit dall’impegno.
A Vicenza questa versione è contestata, al punto che Iorio, nel prospetto per l’aumento, ha messo nero su bianco che Unicredit sarebbe stata comunque tenuta a sottoscrivere tutte le azioni «non collocate presso terzi». Uno scontro che rischiava, dopo il commissariamento di Banca Etruria & C., di mettere nuovamente al tappeto l’intero sistema bancario. E da cui si è usciti, appunto, con una soluzione di sistema: la nascita del fondo Atlante, che in pochi giorni ha raccolto l’eredità da Ghizzoni, acquistando la Vicenza.
Stando a indiscrezioni raccolte da “l’Espresso”, in Unicredit la vicenda ha creato non poche preoccupazioni. Il consiglio avrebbe chiesto informazioni a Ghizzoni già a partire da febbraio, nel timore che la banca si fosse imbarcata in un’operazione che alla fine l’avrebbe costretta a rilevare la popolare veneta, assorbendo - e questo era l’incubo - capitali che Unicredit non aveva. Durante le riunioni del consiglio il manager avrebbe cercato di rassicurare tutti, sposando un’interpretazione del contratto firmata dalla divisione “corporate & investment banking”, secondo cui non esisteva l’obbligo di garantire l’aumento della Vicenza. Tuttavia, il pericolo corso ha finito per rafforzare chi già da tempo puntava a sostituire Ghizzoni.
Molto rispettato nel mondo finanziario, capace di guidare Unicredit nei difficili anni seguiti alla forte espansione internazionale voluta da Profumo, Ghizzoni ha dovuto nel tempo fronteggiare diverse critiche. La più strutturale riguarda il fatto di non aver sciolto i nodi lasciati proprio da Profumo, con una banca che non riesce ad agire come un vero gruppo e che resta, invece, un agglomerato di realtà slegate fra loro, soprattutto in Austria e Germania. Anche se i risultati operativi non sono stati male, una vera e propria svolta non c’è mai stata. Se la raccolta da clientela nel 2015 è tornata ai livelli del 2010 (584 miliardi), colpisce il crollo che nello stesso quinquennio hanno subito i crediti, scesi da 555 a 473 miliardi, mentre sono aumentati quelli deteriorati (da 37 a 38 miliardi).
Ciò che però ha indebolito in maniera decisiva la leadership di Ghizzoni sono state le intercettazioni relative a un’inchiesta della procura di Firenze, che lo scorso anno aveva messo sotto indagine, fra gli altri, il vice-presidente della banca, Fabrizio Palenzona, e un suo collaboratore, Roberto Mercuri. Nelle intercettazioni finite agli atti, e poi sui giornali, c’erano telefonate e messaggi che, al di là di ogni considerazione penale (il Tribunale del Riesame ha annullato i sequestri ordinati dalla procura, poi la Corte di Cassazione a sua volta ha annullato l’ordinanza del Riesame), davano un quadro sorprendente del clima al vertice del gruppo. Palenzona e Mercuri avevano rapporti diretti con i manager e alcuni di questi, attraverso di loro, tentavano di imporre a Ghizzoni determinate scelte. Una situazione che ha spinto alcuni dirigenti a lasciare la banca, in esplicito contrasto con il vertice.
È in questo quadro che ha trovato forza chi chiedeva il cambio. Tra i più decisi Lucrezia Reichlin, l’economista ex Bce che nel consiglio rappresenta gli investitori istituzionali, oltre a Luca Cordero di Montezemolo, vicino agli arabi di Aabar. In scia, però, si sono mossi alla fine anche gli uomini delle fondazioni che pesano di più nell’azionariato, la Crt di Torino e Cariverona, che proprio in Palenzona hanno sempre avuto un nume tutelare. Qui, però, sta il punto: se ribaltone dev’essere, gli investitori internazionali chiedono che il nuovo management sia messo nelle condizioni di poter fare quello che Ghizzoni non ha potuto, cambiando la prima linea dei dirigenti e decidendo in autonomia se conviene un aumento di capitale o è meglio vendere alcune partecipazioni internazionali.
È dunque sul curriculum dei candidati che nei prossimi giorni ci sarà battaglia. Finora, pochi convincono tutti. Uno dei più gettonati, Marco Morelli, era vice-direttore di Mps quando la banca senese strapagò l’Antonveneta, infilandosi nel tunnel. Un altro, Andrea Orcel, con Merrill Lynch lavorò come advisor nell’acquisizione di Abn Amro da parte di Royal Bank of Scotland, un’operazione che ha costretto Londra a salvare l’istituto britannico con fondi pubblici e che è costata a Orcel una convocazione al parlamento inglese. Gaetano Micciché, ora in Intesa, ha scarso appeal estero. Alberto Nagel ha ritirato Mediobanca da tutte le partite che contano e negli ultimi tempi ha sempre schierato l’istituto al fianco del francese Vincent Bolloré. Per questi motivi dicono che l’outsider gradito al governo sarebbe Flavio Valeri, capo di Deutsche Bank in Italia. Ma anche che, a dispetto della nazionalità, restano in corsa stranieri come lo svizzero Sergio Ermotti e il francese Jean-Pierre Mustier.