Il lato comico dell'infelicità: colloquio con Paul Murray

Un caso editoriale. Un romanzo con endorsement importanti. E ora la selezione tra i cinque libri in gara per il Premio Strega europeo. Merito di una famiglia irresistibile. E della caustica ironia del suo autore

Immagino che chiunque lo vorrebbe. Essere come gli altri. Ma nessuno è come gli altri. È questa la sola cosa che abbiamo in comune». Questa frase tratta da “Il giorno dell’ape” (Einaudi Stile Libero, traduzione di Tommaso Pincio, pp. 664, € 22) dell’irlandese Paul Murray - in finale al premio Strega Europeo, e già due volte selezionato al premio Booker Prize con questo romanzo e col precedente “Skippy muore”, presto di nuovo in Italia – condensa bene il motore che regola i rapporti tra i membri di una piccola comunità, un paese mai nominato delle Midlands, e nella famiglia Barnes, che di quel mondo è l’epitome. 

 

I coniugi Dickie e Imelda, coi figli Cass e PJ, sono alle prese con la fine di un benessere materiale, che dagli anni Novanta in Irlanda hanno conosciuto soprattutto i rivenditori di auto, col loro stile di vita pari a quello dei re. Oggi non ci sono più soldi, la concessionaria di famiglia sta per chiudere e tutti sono terrorizzati da qualcosa: Imelda di ripiombare nella povertà, Cass di interrompere gli studi, PJ di finire in collegio, Dickie di venire smascherato. Ognuno custodisce segreti e sensi di colpa, in una rete di (eco-)ansie che avvolge le generazioni. Sullo sfondo, come un rumore, c’è infatti il cambiamento climatico, una società in cui gli adulti non solo hanno smesso di essere una guida per i ragazzi, ma finiscono per metterli in pericolo. 

 

«Guarda le notizie, un uomo anziano, pazzo e malvagio che in dieci anni sarà morto», attacca subito Murray con un affondo neppure tanto velato sul presidente americano: «E cosa lascia in eredità? Sta stracciando gli accordi sul clima per creare ancora più combustibili fossili che provocheranno ancora più inquinamento e accelereranno l’apocalisse». Il libro si apre sul punto di vista dei più giovani, sulle loro strategie per affrontare la perdita di futuro cavandosela da soli: i genitori si rivelano incapaci di guardare il dolore degli altri, troppo impegnati a interrogarsi su quale è stato il momento esatto in cui ogni cosa è incominciata ad andar storta.

Quando ha scritto “Skippy muore” non era ancora padre. Ha attinto a questo, nel descrivere i rapporti tra i membri della famiglia Barnes?

«Non ero genitore, ma mi ricordo bene di quand’ero ragazzo. Le persone che conoscevo allora, l’aula in cui studiavo, la fermata a cui sedevo ogni giorno, le ragazze che aspettavano l’autobus. Mentre scrivevo “Skippy muore” avevo quel materiale a cui attingere. Con “Il giorno dell’ape” è stato diverso. L’essere genitore non ha influito sui personaggi. Ciò che ha influito è stato il modo in cui ho compreso i genitori attraverso gli occhi dei ragazzi. Quando sei un ragazzo, vedi i genitori in modo bidimensionale, come se non avessero un passato, come se le loro vite prima della tua nascita non avessero nessuno scopo. D’altra parte, anche i genitori vedono i loro figli in modo bidimensionale. È difficile accettare che i figli siano complicati, giovani adulti. Ho pensato che fosse un modo davvero utile per far funzionare il libro, perché tutti i personaggi sono come intrappolati in un ruolo, nell’idea che qualcun altro ha di loro, che toglie loro autonomia e capacità di crescere». 

In una lettera del 1924, Hemingway ha scritto: «Un uomo deve subire molti castighi per scrivere un libro veramente divertente». Tutti pensano che hai scritto un libro comico perché la gente è cinica?

«Devo dire che quando la gente dice che questo è un romanzo comico esilarante, io sono perplesso. Mi sembra che ci sia molta infelicità nel libro, piuttosto esplicita. Ma allo stesso tempo, ci sono un sacco di cose divertenti. Non è una decisione che spetta a me. In Irlanda la gente fa un sacco di battute. Nelle situazioni di stress è un modo di riprendere il controllo. Quando nulla ti appartiene, o stai zitto o usi il linguaggio in modo ironico o umoristico, cercando di reclamare una qualche forma di autonomia». 

In un’intervista ha detto che l’ironia è come una maschera, per gli irlandesi, abituati a profondi rivolgimenti sociali. Quanto è importante la rielaborazione letteraria del passato?

«Non mi interessa tanto il passato quanto il nostro rapporto con il passato, quindi il modo in cui il passato viene seppellito. È qualcosa che agli irlandesi riesce bene. Quando il capitalismo è finalmente arrivato in Irlanda, è stato possibile seppellirlo in questo nuovo, scintillante simulacro globalizzato e americanizzato da Mtv. E tutti dicevano: “Sembra fantastico, facciamolo, preferisco essere un simulacro piuttosto che essere bloccato a pensare a mio padre che si è impiccato perché è stato abusato da un prete. Chi diamine vuole pensare a queste cose?”. Mi interessa molto l’idea della negazione, sia come cultura che come singoli individui. Succede la stessa cosa con il cambiamento climatico, si tratta della vendetta del represso. Il petrolio, roba sepolta sottoterra, che noi risucchiamo e diciamo oh, possiamo trasformarla in energia moderna e potente e non succederà nulla di male. E poi si trasforma in inquinamento e lo respiriamo. Cosa significano queste trasformazioni? Credo che sia questo il punto su cui volevo riflettere. In questo libro, le classi sociali sono una sorta di travestimento. Quelle di classe media sono persone che hanno imparato a camuffarsi. Ma alcune cose squarciano il travestimento, come la morte. La morte fa crollare tutte le nostre strategie. E il terribile paradosso della classe è che, di fatto, quando si costruiscono questi travestimenti, si diventa isolati dalle persone che ci circondano. Così le relazioni, che sono la rete che tiene tutto insieme, iniziano a decadere e noi andiamo alla deriva in questo vuoto. La tragedia della famiglia è che non possono aiutarsi a vicenda perché non possiedono un linguaggio vero, capace di articolare la verità».

Anche la sua ambientazione, un piccolo paese, è un luogo di mascheramento e ipocrisia.

«Mi piace scrivere dei paesi. Io vivo in una città, anche se piccola, c’è un sacco di gente: non puoi scomparire ma puoi vivere diverse vite. In un paese tutti ti conoscono e si aspettano che ti comporti in un certo modo. È un po’ claustrofobico perché vivi secondo le aspettative degli altri. È una cosa da paese, ma è anche una cosa da XXI secolo: stai su Instagram, tutti ti guardano, vuoi che tutti ti guardino, così ti comporti in modo da piacere alla gente: le persone trasformano la loro personalità per adattarla a questo spazio bidimensionale, in modo conformistico. C’è un controllo sempre maggiore sul nostro comportamento, e questo rende molto difficile la libera espressione».

L’elemento fiabesco è molto presente nel libro: orchi, cani neri, presenze simboliche. Ti sembra che l’ignoto ci governi?

«C’è una frase di David Graeber che dice che la verità definitiva sul mondo è che è come lo creiamo, e potrebbe benissimo essere diverso. Quindi non c’è un’entità che controlla il nostro destino. C’è il capitalismo, il fascismo, ma siamo noi a scegliere se prendervi parte o meno. La famiglia Barnes vive in un mondo in cui tutti si comportano come se conoscessero tutte le risposte. Durante il boom economico, all’improvviso tutti erano fissati con gli economisti, perché gli economisti conoscevano tutte le risposte. Bastava fare come dicevano loro per diventare ricchi. Ma invece gli economisti non avevano tutte le risposte, in effetti le avevano tutte sbagliate. Dickie vuole essere una brava persona. Quindi fa tutto quello che la società gli dice di fare. E tutto va storto. Dickie non parla la lingua della chiaroveggenza e dei fantasmi. In un certo senso si rifiuta di vedere il mondo. Invece Imelda, sua moglie, è cresciuta in una zona povera del Paese, non è istruita. Ma crede nelle favole, nella superstizione. E queste favole, storie, a volte profezie di ciò che accadrà, sono avvertimenti, che le dicono che le cose vanno a pezzi. E che le cose vadano in pezzi è ciò che tutti nel mondo passano il tempo a rifiutare di accettare. È questo il messaggio che traspare da queste storie di fantasmi, credo. Le cose vanno in pezzi. Quando ci si rifiuta di riconoscere il passato, allora il passato viene a ricordarci che c’è».

Ogni volta che un personaggio invoca “Dio” c’è intorno un’aura di superstizione. Trova che la religione sia un ostacolo alla crescita individuale?

«Quando ero ragazzo, l’Irlanda era una teocrazia. Tutti erano bianchi, tutti erano cattolici e tutti erano poveri. La religione era solo ortodossia. Una cosa noiosa, priva di immaginazione e spiritualità: mangia le verdure, rispetta i tuoi genitori, roba così. E poi si è scoperto che c’era questa orribile ombra di abuso, che è stata permessa per decenni. Quando i soldi sono arrivati negli anni Novanta, è successo più o meno nello stesso momento delle rivelazioni sugli abusi. Quindi tutti hanno preso le distanze. Ma anche prima di allora, non ero interessato alla religione in quel senso. Non sono mai stato un pagano, ma ero interessato ai tarocchi, le tavole Ouija, l’esoterismo. Hai presente Twin Peaks? È come se guardando dalla finestra, ci fosse un mondo dietro a quel mondo. Uno dei nuclei del libro è l’idea che ci sono forze nascoste che ci guidano, di cui non siamo consapevoli. C’è una sorta di doppia realtà: ci sono le periferie così nuove, ci sono i grattacieli moderni e di cemento, ma ti ricordi di com’era prima, delle persone che c’erano o degli alberi che c’erano. E queste due cose coesistono. Anche se quello che immagino è la distruzione, la distruzione è ancora in atto nel tempo. Non riesco a vedere la cosa nuova senza vedere la distruzione».

La letteratura ha una missione nel descrivere il mondo per quello che è in realtà?

«Ha una missione per me. Quando scrivo non cerco di salvare la vita di nessuno, ma di sentire che il mondo può essere bello. Quando presti attenzione a qualcosa, questo è ciò che scopri. Scrivere è un modo fantastico per guardare alle cose con intensità. C’è un pezzo di George Saunders sul Guardian: dice che facendo le cose di tutti i giorni si giudica di fretta, non ci si prende il tempo di capire le motivazioni degli altri. Ma quando scrivi, poiché passi tanto tempo sullo stesso materiale, sugli stessi personaggi, cominci a capire la loro logica. Se vuoi costruire un personaggio negativo, più ci pensi e più lo vedi in modi diversi. Penso che viviamo in un mondo governato da persone che vedono le cose in modo bianco o nero, senza nulla in mezzo. È facile ignorare pezzi di realtà se si pensa in questo modo, mentre la letteratura fa esattamente l’opposto, pone domande, tutto ciò che la letteratura fa è porre domande e lasciare a te il compito di rispondere». 

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