"Il 25 aprile è divisivo solo se sei fascista" è uno degli slogan più esemplificativi del dibattito intorno alla Festa della liberazione dal nazifascismo, ricorrenza che quest’anno il governo ha invitato a celebrare “con sobrietà” in segno di rispetto per la morte di Papa Francesco. Se con la specifica si intendesse manifestazioni pacate, pacificate o non esplicitamente antifasciste, non è stato chiarito dal presidente del Consiglio. Tuttavia alcuni esempi nella penisola si inseriscono in uno sforzo progressivo di diluire il 25 aprile o meglio di ridurlo all’osso. Per esempio a Orbetello, il 25 aprile, il sindaco Andrea Casamenti, ha revocato il permesso alla “pastasciutta antifascista” e ha multato l’Anpi di 566 euro per occupazione abusiva del suolo pubblico. Ad Ascoli Piceno le forze dell’ordine hanno identificato la fornaia Lorenza Roiati per avere esposto lo striscione «25 aprile buono come il pane, bello come l’antifascismo». A Bergamo le forze dell’ordine hanno caricato la parte del corteo che esponeva le bandiere palestinesi affermando: «La resistenza partigiana è resistenza palestinese». Anche a Trieste il livello del conflitto si è alzato per la solidarietà con la Palestina. A Dongo, in provincia di Como, un centinaio di persone ha fatto il saluto romano commemorando il luogo dell’arresto di Mussolini da parte dei partigiani. Nel frattempo, un cordone della polizia li separava dal presidio indetto dall’Anpi in protesta con l’adunata mentre si cantava “Bella ciao”.
Dopo ottant’anni siamo arrivati all’osso della celebrazione e ci abbiamo trovato qualcosa di marcio. Scarnificata la ricorrenza, comunque spesso ormai solo retorica, ci si è ricordati l’ovvio: la Liberazione non è mai stata la festa di tutti, né ambiva a esserlo. Finita la guerra, per spiegarla con le parole di Alessandro Barbero, «i fascisti si son tenuti la loro memoria, l’hanno custodita intimamente». Molti italiani hanno sentito che la memoria celebrata non solo non li rappresentava ma li tradiva. Per questo i figliocci del fascismo hanno sempre tentato di equilibrare il 25 aprile con nuove ricorrenze, celebrazioni e memorie: per quella parte dell’Italia la memoria non coincide con quella nazionale e a questi italiani si è continuato a dar da mangiare perché la Liberazione non si è tradotta in un taglio netto tra il potere e il fascismo. E ora che si è perso anche l’imbarazzo di definirsi pubblicamente fascisti e di operare le istituzioni dello Stato di conseguenza, si sente più che mai il peso di una Liberazione tronca. Soprattutto oggi che per una parte dell’Italia non c’è né Storia né memoria, ma solo impressioni di che cosa è stato (e potrebbe essere) il nazifascismo.
Alcuni, lo ha detto benissimo Francesca Albanese in un incontro a Roma, «vivono sotto i regimi fascisti e questo non ha nessun impatto sulla loro vita». Mentre l’Italia si militarizza e i fascisti riprendono spazio, la vita di molti va avanti indisturbata. Per questo, dice lei, «continuare a protestare è un atto di psicoterapia collettiva». Ma «solo la liberazione ci permette di liberarci dal trauma, non la pace» ha detto l’attivista Ghadir Shafie dell’associazione queer palestinese Aswat. Ancora una volta le lezioni più preziose, anche quelle che dobbiamo solo ripassare, ci arrivano dalla resistenza palestinese. Se la Festa della Liberazione è ancora divisiva per molti, dobbiamo auspicare che lo sia ancora di più: per una Liberazione più profonda, potenziata.