Voce formidabile. Suoni inusuali. Mix di ritmi. La leader degli Evanescence racconta in anteprima il nuovo disco

Aprite le porte al mio rock

Siamo un gruppo rock, non c'è dubbio. Ma rock epico, teatrale, dark... Così Amy Lee, cantante e anima degli Evanescence, ama definire la band che da Little Rock in Arkansas ha conquistato il mondo. 'L'espresso' ha potuto ascoltare in anteprima 'The Open Door', l'atteso cd che gli Evanescence lanceranno il 3 ottobre con un tour mondiale. Un passo indietro. Correva il 2003 quando 'Fallen' scalò le classifiche prima in America e poi in Europa, introducendo il pubblico a un nuovo concetto di rock sincretico, suonato da una band guidata da una ventenne dalla voce prorompente (Amy Lee), un pianoforte capace di distillare melodie orecchiabili, sostenuto da chitarre basso e batteria da heavy metal. Il tutto condito da crescendo di archi ed effetti elettronici. Un cocktail originale e commercialmente appetibile che spiazza la critica. Inizialmente gli Evanescence vengono erroneamente etichettati christian rock, poi heavy metal, gothic e nu metal. La verità è che Amy e compagni sono un passo avanti alla critica: hanno intuito la possibilità di coniare un nuovo linguaggio coniugando elettronica e pop a suggestioni di Jimi Hendrix e Björk. 'Fallen' si aggiudica due Grammy, vende 14 milioni di copie e proietta gli Evanescence nell'Olimpo del rock. Poi il singolo 'Bring Me To Life' viene inserito nella colonna sonora del film 'Dearedevil': per gli Evanescence è la consacrazione. Segue una tournée in 35 paesi davanti a folle adoranti.

A tre anni di distanza, Amy Lee per 'The Open Door' (Wind-Up Records) ha scritto 13 nuove canzoni che dimostrano l'allargarsi della gamma espressiva della band, che con Terry Balsamo (ex Cold) e John LeCompt alle chitarre, William Boyd al basso e Rocky Gray alla batteria, sostiene le evoluzioni vocali e pianistiche di una leader grintosa e spregiudicata. Il linguaggio del disco, crudo ma poetico, riflette le sonorità cangianti della band. Molti brani si avvalgono oltreché di archi, anche di un coro registrato in una cappella. La prima delle 13 tracce, 'Sweet Sacrifice', parte soft e diventa hard con versi come "un giorno affogherai nel mio sangue" e voce e chitarre in evidenza. Poi, l'esplicito 'Call Me When You're Sober' (il primo singolo) è destinato a scalare le classifiche. Si tratta di una ballata che parte con piano, voce e atmosfere blues per poi scatenarsi in un'apoteosi di chitarre, coro ed effetti vocali elettronici. L'estensione vocale della Lee e il suo ruvido lirismo sono apprezzabili soprattutto in 'Lithium' e in 'Cloud None' dove spazia con la libertà dell'improvvisatrice. Il coro e gli archi usati sono dosati con intelligenza. Si chiude con la melodica 'Good Enough', piena di ironia. 'L'espresso' ha incontrato Amy Lee a New York, sua città d'adozione. Lee, appena 24enne, ha più l'aria della brava ragazza che non della diva del rock.

Perché avete aspettato tre anni dopo il successo di 'Fallen' per tornare in studio?
"In verità fremevo per tornare in sala d'incisione, ma semplicemente non avevo il tempo di comporre. Siamo stati in tour per un anno e mezzo. Le mie giornate erano troppo piene. Poi ci è voluto tempo. Sapevo che in molti ci attendevano al varco e volevo che 'The Open Door' fosse il meglio di cui siamo capaci".

Come sono nati questi brani?
"In casa mia, con calma, mi mettevo al pianoforte e cominciavo a suonare, lasciando che le idee si cristallizzassero da sole. Terry, il chitarrista, veniva, ascoltava e poi insieme ci accorgevamo che stava nascendo un brano. Lavoravamo insieme per qualche settimana, quindi lui tornava a Jacksonville ed elaboravamo separatamente le idee per poi verificarle con il resto della band. Le pause sono essenziali per ricaricarsi e affinare il senso critico".

In una parola come definirebbe il nuovo disco?
"Sbalorditivo. Lo dico con tutta la sincerità e l'entusiasmo del caso. Sento che rispetto al precedente sono cresciuta come musicista e come persona. Nel prendere coscienza dei miei mezzi, ho preso coraggio. Nei testi sono riuscita a dire tutto quello che avevo in mente senza parafrasi o ambiguità. 'Call Me When You're Sober' è esplicito, diretto, disinibito. In passato scrivevo testi che si prestavano a più interpretazioni, che potevano valere per ogni luogo e ogni tempo. Adesso voglio essere più concreta".

Anche vocalmente ha preso coraggio, osa di più, per esempio nel brano 'Cloud Nine'...
"È vero. Esibirsi dal vivo è una scuola incredibile e mesi e mesi di tour ti consentono di provare e riprovare fino a capire come affinare la voce. In tre anni anche la voce è maturata e ho voluto metterne in mostra l'intera estensione, brano per brano".

Quando ha deciso di fare la cantante?
"Non l'ho deciso, è successo. Da quando ero una teen-ager sapevo di voler scrivere, era ed è la mia passione. Poi quando abbiamo formato Evanescence ho capito che la mia scrittura dava luogo a canzoni e volevo interpretarle. Per chi suona il piano, cantare è quasi un passo naturale".

Saprebbe descrivere il suo rapporto emotivo con la sua voce?
"La cosa incredibile della voce, del cantare, è che stai lì a cercare di esprimere emozioni, di tirare fuori qualcosa che hai dentro. È letteralmente tirare fuori dell'aria da dentro il mio corpo, espellerla fuori, cioè una manifestazione fisica di qualcosa di emotivo e personale. Cantare per me è definire il suono di un sentimento".

A cosa allude il titolo 'The Open Door'?
"Alla libertà di provare qualunque cosa, musicalmente".

Mentre scriveva, che musica ascoltava?
"Un po' di tutto, ma confesso che mi piace riscoprire gioielli del passato, in particolare 'Violator' dei Depeche Mode e un disco di qualche anno fa di Tori Amos. Poi con la band ascoltavamo molti heavy metal: Pantera, AC/DC che è la musica che ama Terry".

La musica degli Evanescence è difficilmente etichettabile perché mescola costantemente più generi. È una scelta voluta?
"Direi che è il modo in cui ascolto le musiche dei nostri giorni. Ho capito che ciò che funziona per noi è seguire il nostro istinto, il nostro gusto, senza limitazioni. Così abbiamo imparato a mescolare hard rock e pop, musica corale a elettronica, melodia a ritmi forsennati".

Quali sono le differenze principali tra incidere un brano in studio ed eseguirlo dal vivo?
"In studio è possibile controllare ogni aspetto fino alle minime sfumature, provando e riprovando fino a sentirci soddisfatti. Dal vivo invece abbiamo un'unica chance di dare il nostro meglio".

Che ruolo ha il pubblico?
"Fondamentale, è quasi un partner. Avere una massa di persone davanti, che canta con te, che conosce e ama le canzoni, ti dà un'energia incredibile. Sembra un'ovvietà, ma succede qualcosa di magico, un transfer di energia da noi a loro e da loro a noi che trasporta la musica e l'emozione a un'altro livello".

Dal vivo non vi portate dietro né l'orchestra di archi né il coro, è un problema?
"Coro e orchestra sono elementi essenziali della nostra musica. Dal vivo usiamo campionatori e registrazioni per una questione di costi, credo che il pubblico capisca".

La sua esperienza più bella con il pubblico?
"Eravamo ad Atene per un concerto all'aperto. Era la fine del tour ed eravamo stanchi. Una volta sul palco ci accorgiamo che l'impianto di amplificazione è disastroso: non riusciamo a sentirci. Ma appena ho iniziato a cantare mi rendo conto che le migliaia di persone che gremivano questo spazio, stavano cantando con me: sentivo meglio loro che me stessa e questo è stato trascinante".

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