Più tardi, mentre Fabio Zucchella, direttore di 'Pulp', intervista Vollmann chiedendogli che idea avesse della letteratura, Vollmann gli risponde che aveva appreso poco fa cosa volesse realmente dalla scrittura e che prima di allora non lo aveva capito: "Far svenire quella signora che si aspettava dalle parole un momento di elevazione, invece il suo corpo non ha resistito. Le parole le sono entrate dentro. Questo voglio. Poi si avvicina al suo orecchio e gli dice: "Ma qui dove posso trovare le nigeriane?". Zucchella risponde che lui è di Pavia, non ha la più lontana idea di dove si possano trovare le nigeriane in Costiera amalfitana e che lungo la strada da Napoli non ne ha visto nessuna sul ciglio della strada. Allora Vollmann ribatte sprezzante: "Una città senza puttane nigeriane non merita di essere visitata". E si trovava in uno dei posti considerati tra i più belli al mondo. Vollmann, che oggi ha 48 anni, racconta ciò che è storia e umanità e di quest'ultima sonda ogni cosa. Nulla di ciò che è umano gli è estraneo. Alet ora pubblica in Italia 'La camicia di ghiaccio', un libro che sembra essere un delirio. Ed è un meraviglioso delirio. Ma composto di storia mitica e di vicende sconosciute. Un libro incredibile, il primo di un progetto molteplice, quello di scrivere la storia degli Stati Uniti d'America. E Vollmann parte da lontano: dall'anno mille, quando il continente americano fu incontrato dai vichinghi. Quando la genia di Erik il Rosso conquista il nuovo continente. Molto prima di Colombo, l'Europa scoprì il Continente americano e poi decise deliberatamente di abbandonarlo. Furono i norvegesi ad aver conquistato la Groenlandia, oggi autonomo territorio danese. I norvegesi, navigatori abilissimi, scoprirono l'America e la chiamarono 'Vinland', ossia qualcosa di traducibile come 'il paese dell'uva'. Ovunque vedevano viti selvatiche e questa cosa determinò l'immaginario scandinavo. I pellirossa, i norvegesi li chiamarono 'selvaggi disgraziati', ossia 'skraeling'. Ai norvegesi sembravano bestiali, perché mangiavano midollo di cervo, vestivano di pelli animali e combattevano in maniera primitiva. Ci furono diverse battaglie tra i norvegesi e i pellirossa. Ma i vichinghi, quando esaurirono la prima spinta coloniale, lasciarono Vinland-America e tornarono nei territori scandinavi del Nord. Da allora per altri quasi 600 anni l'America tornerà continente sconosciuto al resto del mondo.
Vollmann racconta in un vasto ciclo di romanzi detto dei Sette Sogni il millennio di storia d'America prima della colonizzazione europea, viaggiando anche fino al Circolo polare artico, a 700 chilometri dal più vicino centro abitato, per approfondire le migrazioni del popolo eschimese.
In un altro libro 'Afghanistan picture show, ovvero come ho salvato il mondo', sempre pubblicato da Alet, Vollmann racconta di quando ventenne parte volontario per combattere al fianco dei mujaheddin afgani contro le truppe sovietiche. Parte per Kabul per sparare e credere in qualcosa. E per capire l'Islam. È uno scrittore dentro la storia. In fondo il modo migliore per uno scrittore di fare il suo mestiere è quello di fare il mestiere degli altri. E in questo Vollmann è bravissimo. Nei suoi libri reportage è lì, calato in mezzo alla realtà esplorata. Così come nei romanzi storici è presente dando visione ai dati e raccogliendo le testimonianze ma frullandole nella sua voce. Sempre al presente. Un libro inedito in Italia, 'Europe Central', scandaglia attraverso una struttura di racconti la devastante guerra tra la Germania e l'Urss. Narrativizza la storia. Si fa interprete dei dati che raccoglie, delle bibliografie che divora. Non fa un romanzo storico quanto piuttosto un racconto epico dove la trasformazione delle vicende di uomini singoli in vicende mitiche è la cifra centrale della sua letteratura.
Vollmann vive da sempre una simbiosi con la sua scrittura, come una malattia presa da lontano da Senofonte, lo storico che era stato mercenario, per il quale si può raccontare solo ciò di cui si conosce tutto. Eppure, come precisa Antonio Scurati nell'aletta de 'La camicia di ghiaccio', Vollmann assottiglia i perimetri tra realtà e immaginazione, verità e falso che nel nostro tempo non possono più essere valutati secondo i canoni di invenzione e dato, verificabilità e finzione. E quindi il lettore capirà che ciò che sta leggendo è una verità trasformata in visione. C'è il dato, ma capace di trascendersi in mito che non è la negazione della storia, ma la sua sublimazione in novella storica, racconto, parola letteraria. In fondazione di un pensiero da tramandare. Del suo progetto 'Rising Up and Rising Down', folle come tutti i suoi progetti letterari, le 4.500 pagine complessive dedicate a una storia della violenza (in Italia ne è uscita un'antologia 'Come un'onda che sale e che scende', Mondadori) Vollmann dice: "Ho tentato di creare una sorta di algoritmo morale per calcolare quando un particolare atto di violenza è giustificato o meno. La violenza è sempre sangue o numero, e a volte è talmente vasta che non la vediamo". E anche 'La camicia di ghiaccio' è colmo di battaglie e confronti, di riflessioni sulla terra e sulla conquista, sui nobili cavalieri e su brame di conquista. "Ho sparato per uccidere e mi hanno sparato addosso, ho ascoltato la solitudine di molti uomini: so tante cose della violenza".
Raccontare la miseria dell'uomo, la tossicodipendenza, le puttane, lo sfruttamento bieco, non significa essere attratto dall'abbietto, o decantare il degrado. Ma vedere con più chiarezza il proprio tempo e attraverso le tracce del presente ricercare come un archeologo le sedimentazioni del passato lì dove l'uomo rimane identico, nella brama di potere, nel sangue, nella conquista. Perché Vollmann abbia deciso di giocarsi la propria vita iniettandosi eroina per capire l'eroina, di sparare in Afghanistan per capire la guerra e l'Islam, di perdere la vista sulle bibliografie della storia americana, di esporsi tra le strade dei cecchini a Sarajevo, lui stesso lo motiva in questo modo: "Da piccoli, io e mia sorella andavamo spesso al lago insieme. Lei aveva solo sei anni, io nove, e toccava a me badare a lei. È stata colpa mia se un giorno è annegata, perché mi sono distratto. La sua morte mi ha fatto pensare che non sarei mai più potuto diventare una persona buona, e probabilmente è per questo che tento sempre di aiutare la gente e provo compassione per i perdenti: perché anch'io mi sento un perdente, da quando ho commesso quel tremendo errore". Lo scrittore non può essere una persona buona e spesso arriva a decidere di scrivere proprio per incapacità a esserlo, ma per questo può raccontare con il senso di colpa di non poter mutare le cose e la speranza che la sua indiretta azione possa in realtà moltiplicarsi nelle coscienze e visioni dei suoi lettori che quindi possano agire in sua vece o al suo fianco creando l'ultimo sogno di una comunità che comprende, sente, cammina. E vive.