Cultura
21 maggio, 2007

Classici in scena. Giovani in platea. E testi in 18 lingue. Sergio Escobar racconta il teatro di cui è direttore. E un anniversario che guarda al futuro

Sessant'anni da Piccolo

Il Piccolo di Milano compie sessant'anni e al suo direttore Sergio Escobar, che affiancherà almeno fino al 2010 il consulente artistico Luca Ronconi, chiediamo cosa significhi fare il manager di un monumento culturale come il teatro fondato da Giorgio Strehler e Paolo Grassi. "Quando chiesero a Grassi che mestiere faceva, avrebbe potuto rispondere mille cose - l'intellettuale, il teatrante - lui rispose con orgoglio: faccio l'organizzatore teatrale. Questa definizione va bene anche per me", dice Escobar rivendicando per il suo ruolo la qualità di una funzione comunque creativa. "Ho rubato il mestiere a chi mi ha consentito di stargli accanto: Strehler, Grassi, Badini. Marx scrive che lo zoppo può essere il più veloce se può comprarsi una carrozza. Io non l'ho comprata, ma faccio un mestiere che rende possibile agli artisti il loro lavoro. E per ottenere questo bisogna spianare, smussare tutti gli ostacoli, le difficoltà con cui si deve misurare chi vuol fare teatro, oggi, in Italia. Da bambino", ricorda Escobar, "mi proibivano di cantare perché ero stonato, in vent'anni di lavoro negli enti lirici ho fatto esibire i più famosi cantanti del mondo".

Dirigere il Piccolo significa anche dare un modello agli altri teatri pubblici. "Vuol dire stare in sala macchine e affermare valori che un tempo erano dati come punti di partenza: il teatro come servizio pubblico. Ho dovuto scontrarmi con molta retorica, da quella che privilegia il teatro privato a quella più attuale dei festival. Tenere la barra al centro navigando tra i cambiamenti e rimanere coerenti con il ruolo che il Piccolo deve avere è un atto faticosamente creativo". Ma che senso ha il teatro, oggi? È vivo e lotta con noi oppure, come ritengono alcuni, è diventato come l'opera lirica: una sorta di museo che esibisce per lo più vecchi classici? "L'opera lirica è arrivata a un punto in cui sta accadendo qualcosa che storicamente non era neppure prevedibile: sta rischiando di perdere la sua radice profonda di popolarità. Il teatro di prosa invece, nella sua apparente debolezza rispetto ad altre forme di comunicazione, è forse lo strumento capace di leggere i cambiamenti continui, la perdita di certezze, la frammentazione della realtà, che la gente percepisce intorno a sé. È sorprendente - e lo abbiamo sperimentato nelle nostre ultime stagioni - come il teatro sappia affrontare e leggere tematiche che sembrerebbero estranee alla sua storia e lontane dalla comunicabilità. Penso a tutto il lavoro di Ronconi sulla scienza e sull'economia con spettacoli come 'Infinities' o 'Lo specchio del diavolo'. Proponiamo, e il nostro pubblico risponde con entusiasmo, spettacoli in 18 lingue diverse. Ti chiedi perché quelle lingue parlate da spettacoli internazionali, che potrebbero sembrare solo oggetto di curiosità da festival, in realtà sono le stesse che oggi si parlano nelle nostre città. La gente percepisce con la stessa sensibilità i cambiamenti che avvengono nella nostra società, come l'immigrazione. Il teatro sa conciliare le differenze senza annullarle, riesce a superare le divisioni schematiche, che contraddistinguono la televisione, la demagogia, la banalizzazione".

Allora, è vero che il pubblico ritorna a teatro? "Basta confrontare i dati forniti dall'Istat e dalla Siae: è ormai consolidato, almeno dal 2000 in poi, che va più gente allo spettacolo dal vivo che allo stadio. Non è per mostrare i muscoli, ma quest'anno il Piccolo ha superato i 22.500 abbonati, che scelgono di avere un rapporto fiduciario e continuativo con noi. Succede che la banalità della dipendenza da teleschermo, che non è stata ancora capita dal sistema pubblicitario, è stata invece intuita dalla gente, che cerca altre forme di comunicazione le incontra in quelle più antiche, come il teatro".

Si dice che il pubblico teatrale sia un coetaneo del Piccolo, sessantenne, oppure giovani che stanno in platea per obbligo scolastico. Un teatro pubblico dovrebbe anche porsi il problema di trasformare l'obbligo scolastico in piacere e in consuetudine culturale. "Fare un servizio pubblico vuol dire anche capire il pubblico, studiarne la composizione. Per questo abbiamo un settore che se ne occupa specificamente: metà del nostro pubblico ha meno di 27 anni. L'altra sera a vedere 'Cymbeline', una delle opere non notissime di Shakespeare e con un regista come Declan Donnellan non celeberrimo, su 500 spettatori più della metà erano venticinquenni. Contano molto per noi i rapporti con le università, e non solo con le facoltà umanistiche, ma con il Politecnico, con Ingegneria, Fisica. Se hai, come Ronconi ed io, curiosità anche per quello che non è, ma che può diventare teatro, i giovani ti seguono". Progetti in questa direzione? "Dalla stagione 2008-2009 il nostro Teatro Studio si trasformerà in un campus universitario, in senso lato, del teatro, promuovendo incontri tra attori, registi, ricercatori, studenti. Il teatro può rielaborare la memoria che contiene più curiosità del futuro, la memoria va progettata e letta, e il teatro fa questo".

Largo ai giovani, oltre che in platea, anche sul palcoscenico con nuovi registi e autori? "Sono contrario al pensiero solo generazionale, sono favorevole alle contaminazioni delle idee e dei linguaggi. Per il sessantesimo compleanno del Piccolo solo una parte delle celebrazioni sarà dedicata alla memoria, organizziamo una serie di incontri internazionali con grandi pensatori, a Parigi, Berlino, San Pietroburgo, Shanghai e Milano, per capire come stanno cambiando le metropoli, come vengono vissuti i cambiamenti e quale ruolo può avere il teatro in tutto ciò. Quanto ai nuovi registi e autori, ogni volta che apriamo ai giovani, una parte della critica o non ci viene a vedere, o ci rimprovera di averlo fatto, o giudica come se si trattasse di uno spettacolo non di un esordiente, ma di Peter Brook. All'estero, oltre ad avere molto più spazio sui giornali, la critica ha anche più spazio per la curiosità". Tra le sue attività, il Piccolo dal 1998 organizza il Festival del Teatro d'Europa. Come guarda alla nascita in Italia di altre manifestazioni internazionali, come quella di Napoli? "Se nascono nuovi festival e arrivano soldi in più, va bene. Ma cosa mostreranno i nuovi festival se ci sono sempre meno soldi per produrre spettacoli? Oppure sono festival di produzione e allora vengono a costare molto più di un teatro di produzione".

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