Il successo per la Monaghan è arrivato tardi. Ma ora tutti la cercano. E dopo i block buster 'Mission Impossible' e 'Mr&Mrs Smith' è il momento della svolta d'autore Con l'ultimo fllm di Sofia Coppola

Michelle da Oscar

Ai tempi delle sfilate di New York, Michelle Monaghan era una modella mediamente affermata, ma non tra le top del mestiere. "Di certo", ricorda lei oggi, "non potevo immaginare, perché non esisteva alcun presupposto, che un giorno avrei lavorato a fianco di Tom Cruise o Richard Gere". E invece la ragazza di Winthrop, sperduto villaggio dell'Iowa, si ritrova ad essere, dieci anni dopo, l'astro che promette di illuminare l'Hollywood 2010. E anche il Festival di Venezia, dove arriverà come protagonista di uno dei film più attesi, "Somewhere" di Sofia Coppola.

Michelle ha iniziato a recitare 15 anni fa, ma i ruoli significativi sono arrivati solo molto dopo. Così si è ritrovata ai nastri di partenza a 34 anni: oggi per i cineasti all'avanguardia ha il fascino di un volto nuovo nonostante lei, a Los Angeles, sia di casa da tempo. "Mi rendo perfettemante conto che per una donna, a Hollywood, avere una seconda chance dopo i trent'anni è un miracolo", precisa. Fin dall'inizio il suo talento era fuori discussione, eppure ci sono voluti anni perché fosse valorizzato.

Nel 2005 ha avuto due disavventure artistiche che avrebbero fiaccato le energie di un'attrice meno determinata di lei: scelta per due parti secondarie ma degne di nota in due dei titoli più interessanti dell'anno, "Syriana" con George Clooney e "Constantine" con Keanu Reeves, si è vista tagliare quasi tutto il suo lavoro nella versione definitiva.

Nel 2006, finalmente, si è fatta notare nella geniale commedia noir di Shane Black, "Kiss Kiss, Bang Bang", con un Robert Downey Jr appena riemerso dagli anni più bui della sua vita. È la prima svolta della sua carriera: un anno dopo è con Angelina Jolie e Brad Pitt nel brillante "Mr & Mrs Smith", poi Tom Cruise le offre "Mission Impossible III" e Ben Affleck la sceglie per il suo debutto alla regia nel thriller "Gone Baby Gone". Ma il blockbuster targato Monaghan arriva solo nel 2007, nell'esilarante commedia dei fratelli Farrelly "Lo spaccacuori", accanto a Ben Stiller. Il successo ai botteghini Usa è tale da far sgranare gli occhi anche agli studios che finora l'avevano snobbata.

"Quel film mi ha fatto capire l'importanza del denaro in quest'industria, se, oltre a una villa a Bel Air, vuoi anche costruirti un'indipendenza artistica". E Michelle Monaghan, la più piccola dei tre figli di una normalissima famiglia di provincia, è una che l'etica del lavoro, quasi religiosa nell'America rurale più profonda, l'ha imparata insieme al camminare: "Non ricordo un solo momento della mia vita in cui non abbia lavorato".

Dopo il college Michelle va a Chicago a studiare giornalismo: "Mi sono laureata con l'idea di iniziare a farmi le ossa come reporter televisiva. Ma quando ho capito che mi avrebbero rispedito a farmi le ossa nelle lande dell'Iowa ho mollato. Ci avevo passato tutta la vita, non volevo tornarci a lavorare". È allora che arrivano i primi casting per la tv in show come "Young Americans" e "Law & Order". Ma è un ruolo nell'acclamata serie "Boston Public", nel 2002, a cogliere lei stessa di sorpresa e a farle intuire che, forse, una porta stava per schiudersi. "È lì che ho risentito sotto la pelle quella scossa elettrica che sentivo al liceo, quando io e mio fratello recitavamo negli spettacoli scolastici. Il tempo si fermava, io volavo in un altra dimensione e tutto sfumava. A svegliarmi erano gli appalusi del pubblico".
Sofia Coppola si è invaghita artisticamente di Michelle dopo averla vista due anni fa nella pellicola indipendente "Trucker". Un piccolo dramma che esce in autunno in Canada e Stati Uniti di per sé non è una gran notizia. Ma se il "New York Times" titola: "Nominatela a un Oscar", riferendosi a Michelle Monaghan, il fatto quantomeno non passa inosservato. In quel film Michelle consegna un'interpretazione corposa e raffinata, la più riuscita della sua carriera, sicuramente da Oscar. Il film, che è anche prodotto dalla Monaghan, fa il giro dei festival di cinema indipendente e a Monterey viene visto dalla regista di "Lost in translation" e "Maria Antonietta". In "Trucker" la Monaghan è una camionista alcolizzata e promiscua che scopre il legame d'amore ma anche di responsabilità nei confronti del figlio di 11 anni.
"Il mio personaggio non è né simpatico, né eroico", racconta Michelle. "Ma questa asprezza è proprio ciò che mi ha appassionato di lei. Se c'è un aspetto del mio lavoro che amo alla follia, è la possibilità di mostrare, di incarnare, il lato vero delle cose". Oltre al plauso di critica e pubblico, "Trucker" ha indicato la direzione da prendere. "La produzione è costata solo un milione e mezzo di dollari. Il che significa avere una straordinaria libertà espressiva e poche pressioni dall'esterno. Ma anche un conto in banca da ridere". L'obiettivo della Monaghan non è il castello di Bel Air: "Voglio continuare in questa direzione, produrre altri piccoli film dove posso avere tutta la libertà e il controllo di cui ho bisogno. Certo, per farlo non potrò rinunciare ai successi assicurati al botteghino, se continueranno a offrirmeli". Non è un caso quindi che a pochi mesi da"Trucker" sia uscito anche "Un amore di testimone", commedia rosa con Patrick Dempsey.
E adesso, Sofia Coppola. È bastata la conferma del suo ruolo da protagonista nel film, nato nella più grande segretezza, a trasformare Michelle Monaghan nella First Lady di Hollywood. "Non esageriamo. Sicuramente la mia carriera da due anni ha vissuto una svolta e Sofia Coppola, ora, è il definitivo giro di boa", commenta lei. "Ma una cosa è certa: non voglio cedere a nessuno il controllo della mia agenda. Voglio continuare a girare pellicole indipendenti e Sofia Coppola rappresenta il perfetto punto d'equilibrio tra due modi di concepire il cinema: per il pubblico e per l'arte".
Sui dettagli del nuovo film e sul ruolo della Monaghan e degli altri attori, da Benicio Del Toro a Laura Ramsy, tutte le bocche sono cucite. È un progetto nato all'insegna del clan Coppola. Il fratello Roman e il patriarca Francis Ford infatti affiancano Sofia nella produzione. Si conferma che la regista ha un debole per le storie che si svolgono in albergo. La quarta pellicola di Sofia Coppola è un dramma ambientato nell'iconico Chateau Marmont sul Sunset Boulevard, a Hollywood. Un dramma immerso nell'ironia soffusa e livida che è la cifra poetica della trentanovenne regista e del linguaggio cinematografico del nuovo decennio che lei ha contribuito a rinnovare. Ambientazione e corde che rimandano a un'altro luogo esclusivo e alienante, l'indimenticabile Park Hyatt Hotel di Tokyo nel capolavoro "Lost in Translation", Oscar nel 2003.
Un "Lost in Translation 2"? Per quello che abbiamo potuto vedere, si direbbe di sì. Sofia Coppola ha le muse dalla sua quando si tratta di raccontare uomini di mezza età, bisognosi della guida di una donna più giovane per trovare l'equilibrio e una speranza di felicità. Questa volta la storia è quella dell'attore Johnny Marco (Stephen Dorff), bad boy riemerso da una vita di eccessi e dipendenze, scosso dalla visita inaspettata della figlia di 11 anni (Elle Fanning). La vicinanza inizialmente forzata, seppure nella cornice del meraviglioso castello, lo costringe a riesaminare la sua vita senza sconti: ma con quell'empatia per le debolezze degli esseri umani cui il cinema di Sofia Coppola ci ha abituati, scintillante colonna sonora della band elettronica Phoenix inclusa. Il red carpet del Lido si avvicina. Paura? "La paura è il sentimento che più d'ogni altro dà motivazione alla mia vita", confida Michelle: "Ma nel senso di "paura di perdersi i momenti più belli". Per questo, da sempre, tendo ad afferrare quanta più vita possibile".

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