Vengo solo se c'è vero cinema e si discute ogni film... Così rispose Quentin Tarantino a Marco Müller che insisteva nel proporgli la presidenza della giuria della 67ma mostra di Venezia (dal 1 settembre). E lui riluttante, perché in giuria era stato altre volte (compreso Cannes) e si era sempre annoiato a morte. "Questa volta non ti annoi", promise il direttore del Festival. E mantenne. Costruendo il Concorso, Fuori concorso, Orizzonti e soprattutto il Leone d'oro alla carriera (a John Woo) nel solco di Quentin. "Secondo lei John Woo sa girare le scene d'azione?", disse l'incauto giornalista a Tarantino. "Più o meno come Michelangelo sa dipingere i soffitti", rispose lui.
A parte i soffitti confusi con le volte e l'attendibilità di una storiella che gira in Rete, resta l'indiscusso debito di Tarantino verso il maestro cinese: il rallenti, la sparatoria che diventa danza, la ormai classica geometria dei duellanti che si puntano contemporaneamente le pistole alla testa, la rivoluzione nel montaggio. John Woo che ha portato in America la peste del cinema asiatico per riportare in Asia i soldi di quello americano, con cui ha prodotto e girato (insieme al suo collega taiwanese Su Chao-Pin) questo "Reign of Assassins": un kolossal dove piovono spade e misteri che al Lido coronerà la cerimonia in suo onore. John Woo autore anche di videogiochi e fumetti, tra i pochi (insieme a Tarantino) in grado di traghettare il cinema nelle procellose acque della tempesta digitale e del suo cambiamento epocale. Ovvero quel nuovo spirito dei tempi che Müller vorrebbe proiettare tutto con le visioni che si accavallano in 3D, HD più animazioni surreali e deliranti. Come il primo 3D cinese dei fratelli Pang, due geniali ragazzi di Hong Kong scoperti da Sam Raimi che li chiamò a Hollywood. Ma presto i due sbattono la porta, preparano i bagagli e tornano a Hong Kong per cercare quella libertà visionaria che secondo le major costava troppo. Ed ecco ora "The Child's Eye", horror metafisico dove si finisce in un tridimensionale Ade Buddista. Ma c'è anche un nostro italico 3D: si chiama "All inclusive" ed è firmato da Nadia Ranocchio e David Zamagni, fondatori di ZAPRUDERfilmmakersgroup, gruppo di ricerca sull'immagine in movimento e, come si evince dal nome, molto all'avanguardia.
Cineasti perfetti dunque per una sezione ("Orizzonti" appunto) che da quest'anno si presenta libera, scatenata, anarchica pronta ad accogliere film di pochi secondi o di un paio d'ore, di ogni genere e natura purché tesi a ridefinire la parola cinema. Sia che la scrivano artisti come Doug Aikten o Douglas Gordon, scrittori come Guillermo Arriaga o documentaristi eccellenti come Gianfranco Rosi. A Venezia, a differenza di Cannes, non sfugge che quel rituale fatto di film d'autore e acculturata giuria, è solo un retaggio del secolo scorso che rischia di rendere i festival anacronistici come un ballo delle debuttanti. Per questo al Lido ,una dopo l'altra, si accendono le stelle della costellazione Quentin. Fin dal primo giorno, anzi notte, con l'apertura in omaggio a Bruce Lee nel 70mo anniversario della nascita e l'unofficial sequel della "Cina con furore" dal titolo "Legend of the Fist" di Andrew Lau. Un film che è anche omaggio alla tuta gialla di Uma Thurman in "Kill Bill", omaggio a sua volta all'uomo in giallo Bruce Lee.
I cento tredici minuti del film di Lau finiscono appena in tempo per far partire l'evento della Mezzanotte: "Machete" di Robert Rodriguez al cui solo annuncio tutti i cine-tarantinati hanno cominciato a lucidarsi le scarpe. Perché più che film è un lieto evento: lungometraggio già concepito da Rodriguez e Tarantino in un trailer all'interno dello splatterissimo "Grindhouse-Planet Terror" culto del 2007 firmato da Rodriguez e prodotto (ma anche molto girato secondo le fanzine) dallo stesso Tarantino. E l'intreccio si infittisce quando s'incontra nel concorso "Road to Nowhere" un thrillerone a sfondo politico e identità multiple firmato da Monte Hellman che non è solo un regista mitico degli anni Sessanta ma fu anche, in qualità di produttore delle "Iene", tra i primi a credere nel genio di Quentin.
Siamo davvero ai parenti. D'arte s'intende, perché sarà bene tralasciare l'ex fidanzata Sofia Coppola anche lei a Venezia, anche lei in concorso con un filmino alla maniera di "Lost in Translation" ma che si annuncia talmente esile da meritarselo tutto il vago titolo "Somewhere". Insomma una visione del mondo che con Quentin non ha più niente a che fare. Ben altre saranno le parentele di un cinema del XXI secolo tutto fatto di ritagli, di rimandi, di copia e incolla, di citazioni rubate l'uno all'altro. Dove i generi partoriscono altri generi e dove le musiche richiamano altre musiche. Cinema che nasce dal cinema e dalla bulimia di cinema di generazioni nutrite a pane e immagine e ormai dimentiche delle origini teatrali e letterarie del film. Perché secondo le parole del direttore di questa 67ma mostra "quello che ora chiamiamo ancora cinema, ha azzerato tutti gli antichi criteri qualitativi dalla "fattura" alla "firma" dell'autore, ha spalancato nuovi campi di sperimentazione e suscitato speranze di un'attualità sempre più rigorosa".
Del resto quel rivoluzionario di Tarantino - come ormai è noto - nasce spettatore e divoratore di vecchi Vhs prima che autore e dunque è il giusto uomo-simbolo di un festival che alla dittatura dello spettatore è interamente dedicato. "Io voglio regalarvi un piacere della visione che voi non avete neanche mai immaginato. Questo è un film di samurai-terror che mostra il fiore della vita e della morte. Semplice, radicale, bello", è la promessa di Takashi Miike altro nome di culto al Lido con "13 Assassins" remake di un classico di cappa e spada anni Sessanta e "Zebraman" omaggio a una celebre serie tv per bimbi nipponici. Fare film diventa quasi una cura per Peter Pan cinefili: come dimostra questo giovane giapponese che sognava di diventare motociclista e invece è regista prolifico di lunghi e corti piuttosto splatter e ruvidi, famosi anche per gli schizzi di sangue che restano sull'obiettivo della telecamere per tutta la sequenza. Seguito da una sua schiera di fan incalliti, Takashi Miike arrivò a Venezia già tre anni fa con un pirotecnico e coloratissimo "Sukiyaki Western Django" interpretato- guarda un po'- anche da Quentin Tarantino nel ruolo di tal Piringo (ovvero Ringo) in omaggio a tutto lo spaghetti western.
La promessa è mantenuta. Tarantino non si annoierà questa volta nel vedere un concorso dove corrono Arofonosky e Vincent Gallo, Skolimowski e Alex de la Iglesia, i nostri Saverio Costanzo e Mario Martone. Sarà una tortura per lui dover scegliere fra il vecchio Hellman e l'amico Takashi. E come farà poi a non mostrare riconoscenza a un altro grande maestro come Tsui Hark che ha reinventato il cinema di arti marziali e senza il quale sarebbe bastato un volume solo di "Kill Bill"? Ora il vecchio saggio è lì e toccherà all'allievo giudicare l'opera dall'interminabile titolo "Detective Dee and the Mystery of Phantom Flame", storia di un serial killer vissuto più o meno nel 690 d.C. che ammazza i dignitari della dinastia Tang. E non sarà facile né per lui né per gli altri prestigiosi giurati: che siano i nostri Guadagnino e Salvatores o il musicista di Tim Burton Danny Elfman. Perché questa volta non si dovrà premiare il più bello e neanche il più buono. Ma, in nome di quel che resta del cinema, vinca il migliore: quello che ha già catturato il futuro.
Cultura
25 agosto, 2010Molti film in rassegna al Lido sembrano un omaggio ai gusti del presidente della giuria. Perché è Tarantino l'uomo destinato a traghettare il cinema nel nostro secolo
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