Sabato scorso si è spento nella sua casa in seguito a una lunga malattia Jean Giraud, in arte Gir o Moebius, uno dei grandi maestri del fumetto contemporaneo. Il legame tra vita e arte si è spezzato. Oggi nella Basilica di Santa Clotilde a Parigi si celebreranno i funerali. Scompare l'uomo, ma resta l'opera.
Pioniere e sperimentatore di diversi generi grafici (dalla saga western Blueberry alle incursioni più oniriche dell'indimenticabile serie l'Incal con Jodorowsky, ad esempio) e linguaggi (scrisse i testi per il manga Ikaru di Jiro Taniguchi), dal cinema (collaborando alla produzione di diversi film di fantascienza come Alien o Il quinto elemento) all'edizione (fu uno dei fondatori della rivista Metal Hurlant e della casa editrice Gli Umanoidi Associati), l'artista lascia un'eclettica, magmatica opera di cui la Fondazione Cartier per l'arte contemporanea di Parigi aveva ospitato una grande retrospettiva l'anno scorso.
In Moebius-Transe-Forme c'erano copertine, tavole a fumetti, acquerelli e quadri a olio o acrilico, animazioni, installazioni. Insomma, non mancava proprio nulla. «Mi sono mosso in tante direzioni diverse» raccontava Jean Giraud all'Espresso qualche tempo fa, gettando uno sguardo al cammino percorso fino a quel momento. «Ho dipinto, ho creato paesaggi e disegnato acquerelli, ho immaginato cercando di innovare un ambiente piuttosto conservatore. Ho voluto davvero fare fumetti, anche se il mio percorso mi aveva reso sensibile all'arte e la mia ambizione era trovare un legame tra gli uni e l'altra. Avrei potuto dire: rifiuto quest'arte commerciale, industriale. Ma non era quella la mia strada».
Una storia vecchia. Com'è stato per la fotografia, la nona arte ha posto e continua a porre un problema. Ossia un disegnatore di fumetti è un artista? Qual è il nesso tra fumetto e arte contemporanea? «Dopo la Seconda Guerra mondiale, quando stava emergendo un nuovo tipo di società e l'arte aveva già cominciato a battere la strada dell'astratto, del concettuale» continuava Moebius, «il fumetto ha funzionato come elemento rivelatore, come lo strumento per interpretare il cambiamento, di prendere su di sé il carico e la responsabilità di tutta una tradizione: bisognava rappresentare corpi, oggetti, paesaggi se si voleva raccontare una storia».
E in quest'avventura si lancia il disegnatore francese il cui entusiasmo non mancava di colpire amici, colleghi e semplici appassionati incontrati magari nel corso di una sessione di dédicaces. «Amo disegnare, anche se accanto all'aspetto appassionante, c'è il tempo rubato alla vita e ai rapporti con gli altri. C'è la disciplina, lo sforzo, il fallimento e la sofferenza. La realtà ha sempre diversi piani e livelli, tutti mescolati tra loro». Da qui probabilmente il bisogno di giocare con le sue diverse identità.
Aveva detto più volte di credere nella parentela che c'è tra il destino dell'artista e il Bagatto, la prima carta degli Arcani maggiori dei Tarocchi. Entrambi sono un po' giocolieri e ingannatori, un po' maghi e artigiani con un continuo bisogno di riconoscimento. «Un problema dell'ego che va elaborato» commentava, «perché non è quello lo scopo». Gir amava perdersi in lunghe riflessioni. Per lui arte e vita erano talmente legate che, anche quando raccontava (e non disegnava) la sua visione del mondo, dipingeva un grande affresco teorico.
«Una lunga tradizione iniziatica insegna che, prima di ogni altra cosa, bisogna trovare il proprio posto nel mondo. Solo dopo si può assumere su di sé e iniziare a "giocare" il proprio ruolo. Forse la libertà è permettersi di non ascoltare il senso comune e seguire il proprio istinto, la propria intuizione o il proprio piacere. Eppure, a ben vedere, questa formidabile presa di posizione non è che un abbandono. Un vero e proprio paradosso. Quando ho iniziato a disegnare fumetti, ero affascinato dalla figura dell'eroe inseguendo il desiderio che l'eroicità del personaggio si trasmettere a me. Creando Moebius ho rappresentato qualcuno che aveva scelto per la propria esistenza il compito di creare, di dare vita a un mondo. Era quello che sognavo per Jean Giraud».
La trasformazione, la metamorfosi, forme e materia in perpetuo movimento: è stato questo il faro guida della sua produzione. Il carburante di questo moto perpetuo può essere considerato una specie di amore? «Se parlo di atti d'amore» continuava a spiegarci Jean Giraud, «quello che ho in mente è tutto ciò che l'uomo fa guidato da una forza che lo motiva. Il problema si manifesta quando l'energia non circola, quando il sistema non ne permette l'espressione e quindi il ritorno. Qualcosa si difficile visto che la vita sulla terra ha un'organizzazione cannibale, pericolosa, mortifera. Il fine della vita è di rinnovarsi e la nascita non può prodursi senza la morte di qualcos'altro. Anche questo, o soprattutto questo, è amore».