Un’esagerata offerta di mostre grandi e piccole. Di eventi e rassegne. ?Mai come quest’anno è qui la capitale dell’arte. Sotto forma di enciclopedia delle nazioni: dall’Angola, ?Leone d’oro per il miglior padiglione, alla Russia con il suo gigantismo. Eccone una guida ragionata

Babele a Venezia

Non poteva esserci titolo migliore di “Palazzo enciclopedico” per battezzare sia la Biennale 2013 sia la “mostruosa” offerta di esposizioni grandi e piccole, eventi e rassegne, video e opere di arte private e pubbliche che quest’anno Venezia ha messo in piedi per la sua 55esima Esposizione Internazionale (fino al 24 novembre). Città enciclopedica a cui non son bastati i Giardini e l’Arsenale - sebbene questo fosse stato già ampliato di suo per ospitare il debutto in Laguna del padiglione della Santa Sede. Questa volta tra calli e campielli si è riversato il mondo e non basta ad accoglierlo neanche la sola Venezia, tanto che isole Tuvalu, piccolo arcipelago perso nel Pacifico, si sono rifugiate a Forte Marghera per raccontare artisticamente la storia di un paese pacioso che non produce emissioni nocive ma che sarà il primo ad essere sommerso dall’innalzamento delle acque provocato da missioni altrui. Se il viaggio intorno al mondo supera i confini della Serenissima, la visita alla Biennale questa volta diventa a dir poco impegnativa. Tre giorni non bastano e anche su una settimana si sta stretti. Tanto che su richiesta e protesta del pubblico si è deciso di prolungare l’orario (fino al 28 settembre ogni venerdì e sabato, i cancelli chiuderanno alle 21 invece che alle 18). Ma per economizzare tempo ed energie sarà bene armarsi di mappe, guide e consigli. A cominciare da quelli, inevitabilmente “faziosi”, che proponiamo in questa corsa all’interno della Biennale di Babele.

Primi passi. In principio c’è il “Palazzo Enciclopedico” vero e proprio, curato da Massimiliano Gioni che occupa il grande Padiglione dei Giardini, l’intero Arsenale con le Tese, le Gaggiandre e le Corderie completamente trasformate. Non più un tunnel di mattoni rossi e tetto a capriate, ma un labirintico percorso di muri candidi che si snoda come un paesaggio romantico tra sale ovali e corridoi,stanzette ed emicicli, improvvise radure e macchie fitte di opere, sentieri e tane. E su quei muri candidi un fitto germogliare di nomi a volte famosi (come Sarah Lucas o Tacita Dean o Cindy Sherman), altre superstar (come Steve McQueen o Richard Serra o Walter De Maria) ma per lo più invece son fiori rari e piante esotiche. Artisti sconosciuti, scomparsi o nascosti. Autori depressi curati dalla pratica artistica, veggenti guidati dalle voci, eccentrici e ricchi signori dediti ad attività creative scoperte solo post mortem. La lettura delle loro biografie a partire dall’ispiratore di tanta fatica, Maurino Auriti, che progettò l’immenso palazzo per contenere tutto il sapere dell’uomo, fa parte del piacere della visita. Dai pannelli inchiodati alle pareti o dalla più comoda “Guida Breve” in vendita al bookshop, si narrano “Le vite de’ più eccellenti pittori e scultori 2013” come quella di Bispo do Rosàrio, ex guardiamarina afflitto da visioni e internato per cinquant’anni in un manicomio di Rio de Janeiro dove ricamò, intrecciò al telaio, colorò, disegnò e scolpì tra le più belle opere dell’arte brasiliana del dopoguerra o Guo Fengyi, operaia cinese, morta nel 2010, che non solo riuscì a curarsi un’artrite acuta grazie a un convulso disegnare a inchiostro, penna a sfera e matita, ma su quell’ispirazione costruì una disciplina mistica e diventò guru e guaritrice al punto da illudersi di fermare con la sua pratica l’avanzata della Sars. Del resto, il fatto che si sta per entrare in un territorio di confine tra visibile e invisibile, immagine e immaginazione, è annunciato dall’ingresso al padiglione dei Giardini, dove ci accolgono in sequenza, il “Libro dei sogni” disegnato da Carl Gustav Jung, la maschera mortuaria del padre del Surrealismo André Breton e le lavagne con i disegni del fondatore dell’Antroposofia Rudolf Steiner. Come dire: ecco le colonne d’Ercole, se procedete sappiate che “hic sunt leones”.

I Leoni. Il primo Leone d’Oro s’incontra sul pavimento della Sala Steiner, dove attori di età diversa danzano e cantano una nenia come in un rituale primitivo. È la premiata azione firmata da Tino Sehgal, qualcosa tra il regista e il coreografo, l’attivista politico e il poeta, lo storyteller e il provocatore. Autore di eventi indimenticabili, come il custode di un museo che improvvisamente fa uno spogliarello o l’avventura di esser presi per mano da un bambino e poi da un adolescente. E via così fino a un vecchio raggrinzito, tanto per far esperienza della vita intera nello spazio di una performance. Più complessa invece è la ricerca del Leone d’oro al miglior padiglione. Vince l’Angola. Che non è in Africa, in questo caso, ma a Dorsoduro, guardando le Gallerie dell’Accademia, spalle al ponte a sinistra prima del Guggenheim: Palazzo Cini a San Vio. Tappa d’obbligo e casa museo da sindrome di Stendhal. Alle pareti Dosso Dossi, Ercole de’ Roberti, Taddeo e Bernardo Daddi, Sandro Botticelli e una pallida, lunare “Madonna con Bambino” di Piero della Francesca che da sola basterebbe allo svenimento. Lì tra mobili, specchi, porcellane, avorii, rami smaltati, cassoni dipinti a testimonianza dei contrasti di questo nostro mondo, pile ordinate di poster a disposizione del visitatore. Compatti come totem o come sculture minimal trattengono immagini di oggetti perduti e poveri (la porta di una favela, una bicicletta arruginita, quel che resta di un muro) catturati nel progetto “Luanda, Encyclopedic City” di Edson Chagas, fotografo artista angolano. Meditate gente.

In giro per il mondo. Gran parte del mondo conosciuto si trova tra le terre di mezzo dei Giardini. È qui che il Belgio ha unito una delle sue figlie più visionarie, Berlinde de Bruyckere, con un commissiario sui generis, il Nobel Coetzee, creando un’imperdibile creatura tra l’incubo e il martirio. È qui che la Gran Bretagna, per mano di Jeremy Deller, si confessa fino all’autocoscienza e alla pubblica autocritica raccontando vizi e virtù di una nazione, dall’ossessione per il “tea time” alla passione per il punk. È qui che la Romania rivela un imprevisto humour, grazie ad acrobatici attori che mimano tutte le opere più importanti apparse alla Biennale dagli inizi della sua storia. Incredibile ma vero, riescono anche a rendere un quadro astratto. Ed è qui, all’ingresso dei Giardini, che è attraccata la nave del padiglione portoghese.Vecchia carretta rimessa a nuovo con tanto di finte azulejos sulle murate e un interno reinventato dalla fantasmagorica Joana Vasconcelos. Salire, aspettare, lasciarsi trasportare in un mini-tour di musica, fado, drink e leggera follia. E il viaggio intorno al mondo obbliga poi a spostarsi all’Arsenale, dove in Argentina si viene accolti da una giovane Nicola Costantino che, molto meglio di Madonna, incarna Evita tra video e tableaux vivants, attraverso un percorso buio degno di un tunnel dell’orrore da luna park, per raccontarci il potere di fascinazione, la morte che la rende leggenda, Dior e le mamme argentine che la rendono un’icona e un modello di femminilità da cui è difficile liberarsi. E il viaggio non si può concludere che in Cile, dove Alfredo Jaar, artista filosofo e politico, con una complessa e fascinosa macchina più una maquette dei Giardini si chiede e ci chiede se ancora in questo mondo si può fare una mostra di nazioni. In fondo lui risponde no, facendoli annegare tutti nella melma grigio-verde color Laguna.

Ciak, si guarda. Nel 2011 fu l’omaggio al grande schermo. Un continuo rimbalzo e richiamo all’immaginario filmico che si traduceva in pittura, video e trionfava in “The Clock”: opera che, montando fotogrammi con immagini di orologi, riusciva in un sol colpo a segnare il tempo e ripercorrere la storia di Hollywood. Stavolta invece s’impongono il documentario, il serial, il cartoon. Tutto sui generis, ovviamente. La crisi, tra potere del denaro e fragilità delle umane vicende, raccontata dalla Grecia con “History Zero”: miniserie in tre episodi per mano di un bravo regista-artista, Stefanos Tsivopoulus. E poi le immagini di una Parigi che non è Parigi, nei pastiche delle architetture del nuovo mondo e lo smarrimento dei suoi abitanti, nella bellissima installazione a tre schermi di Jesper Just ospitata dalla Danimarca. La testimonianza del pilota israeliano che disobbedisce agli ordini e non bombarda l’obiettivo nel video di Akram Zaatari “Letter to a Refusing Pilot” (padiglione del Libano). E infine il cartoon di Mathias Poledna in 35mm, disegnato a mano con la stessa tecnica che usò Disney per Biancaneve o le Silly Simphonies più musica eseguita da una grande orchestra secondo lo stile del tempo. Tre minuti di assoluta delizia da passare seduti nel padiglione austriaco.

Tanto rumore per nulla. Domanda: ma perché la Russia deve mostrare i muscoli con padiglioni inutilmente dispendiosi? Questa pioggia d’oro di Danae con cornucopia di monete che precipitano se la batte con l’altrettanto inutile marchingegno degli Emirati: una basculante prua di nave con mare virtuale, effetto Titanic. Bah.

OLTRE LA BIENNALE. Imbarazzo della scelta. Le mostre patrocinate o liberamente allestite son talmente tante che è difficile decidersi. Di certo i passi devono portare verso Palazzo Grassi, perché Rudolph Stingel, grande artista, merita il nostro tempo. E così la rassegna in Punta delle Dogana, sempre ben scritta dalla mano raffinata della curatrice Caroline Bourgeois. Ma è bene anche allungare il tour all’Isola di San Giorgio per la complessa e rigorosa indagine sul vetro come materia di sfida per l’arte contemporanea (“Fragile”) e la personale di Marc Quinn che ha scandalizzato mezza Venezia causa scultura gonfiabile di 30 metri che immortala Alison, focomelica e incinta creatura. Ma soprattutto è d’obbligo fermarsi e riflettere sull’ardita e concettuale operazione firmata da Germano Celant, Rem Koolhaas e Thomas Demand a Ca’ Corner (Fondazione Prada). La ricostruzione ai limiti dell’impossibile della storica mostra “When Attitudes Become Form”, curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969, che cambiò radicalmente e per sempre l’arte e la critica del Novecento.

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