'Ironico, appassionato e rivoluzionario' Saviano racconta il Leopardi di Martone

Il poeta di Recanati ne 'Il giovane favoloso' è finalmente lontano ?dai luoghi comuni sulla bruttezza e l’infelicità.   Durante tutto il film, la sensazione di accompagnare davvero Giacomo nella sua breve ma intensa vita è fortissima

Mario Martone si misura con la storia italiana. Lo fa ancora con “Il giovane favoloso”, dopo “Noi credevamo”, film colossale sul Risorgimento. Martone gira «mirando a ciò che è sotto la pelle della storia» e per farlo credo usi tutto il coraggio che ha. Lo stesso coraggio che ebbe Leopardi nell’ostinarsi a descrivere un’umanità disperata, di una disperazione che appartiene a tutti, quando il secolo e, aggiungerei, il mediocrissimo senso comune, vorrebbero insegnarci che la condizione umana si può migliorare con la preghiera o la ragione.

Martone è attratto dall’Italia che poteva essere e non è stata. Dal patrimonio di sogni, di analisi e di ribellione che siamo stati e che lascia atterriti al confronto con ciò che siamo ora: compromissione, imbroglio, adeguamento al peggio. Martone, forse, progetta una ricostruzione di ciò che potevamo essere, di ciò che ci portiamo addosso o meglio dentro, da qualche parte. Ora ci riprova con Leopardi. Ci riprova a raccontare l’Italia tradita, la grande parte di questa nazione che sperava in un epilogo diverso.

Per i primi dieci minuti del film “Il giovane favoloso” non fiata. Giacomo Leopardi/Elio Germano è lì a mostrare come i pensieri rimbalzino dentro di lui, sullo sfondo Recanati dolce, amabile, terribile, mortifera. È notte e il giovane Leopardi non prende sonno. Inizia a recitare. Potrebbe sembrare forzato, guardo il film con paura: Leopardi, complicatissimo raccontarlo proprio perché a tutti sembra esser già stata raccontata la sua storia, tutti l’abbiamo visto stuprato dalle nostre scuole o, in casi rari, l’abbiamo amato per grande regalo di professoresse e professori appassionati. Giacomo è lì, e con lui la mia paura che in quella scena potesse esserci troppo teatro, potesse trovare spazio il mimare la vita più che la vita stessa. E invece no. E invece il miracolo.
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Germano/Leopardi declama, insonne, e stimolato dalla ragazza che vede di fronte, durante gli studi diurni, dalla sua finestra: «Tu dormi, che t’accolse agevol sonno. Nelle tue chete stanze; e non ti morde. Cura nessuna; e già non sai né pensi. Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto». Citati esattamente come un attore non reciterebbe mai quei versi, e proprio per questo credibili e veri. Un sorriso sulle labbra, un lieve accento e il legame è creato tra chi ascolta e chi dice. Il patto di fiducia è stretto, di nuovo, per poter godere senza alzare barriere e senza sospetto alcuno di un’opera che, come sempre per Martone, ha un dono raro: l’onestà.

I versi cantano veri, recitati così con l’ironia e il dolore dell’innamorato. Il contrario della contrazione. E quei versi, con quelle parole insopportabili per un adolescente che le studia, vengono a tradursi invece in uno strumento d’amore e sentimento potente che nessun innamorato potrebbe disconoscere. E quelle parole capisci che sono come suonate su un clavicembalo, non è postura. Ed è subito pronto questo film a liberare Giacomo Leopardi delle cazzate dette su di lui e ripetute purtroppo ancora in decenni e decenni di studi, di scuola, di programmi troppo spesso interpretati senza amore.
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Il suo dolore è vita, la sua malinconia è fame di bellezza, ma Giacomo non è ammorbato, non è depresso, la sua tragica tristezza non è sfortuna. Ma è la voglia di essere amato che muove tutto. E il desiderio di riuscire a dirlo con la potenza dello scrittore che porta in sé i silenzi degli animi più semplici, spesso costretti a solo un grido represso.

Il film è lungo. Come tutti i film di Martone. Verrebbe voglia di consigliare al regista dei tagli, poi invece comprendi che anche la durata è una scelta di coraggio. Anche la durata è un dono al protagonista cui va restituita una vita intera, affidata a semplificazioni crudeli per troppo tempo. 

Delicato e intenso il rapporto dapprima epistolare con Pietro Giordani, non semplicemente un letterato, ma uno dei primi intellettuali italiani ad aver sperato che i classici potessero essere rilegati in libri con un prezzo accessibile, perché fossero alla portata non solo di nobili, ma anche di artigiani, piccoli commercianti e autodidatti. Giordani voleva svecchiare l’Italia dalle posture e dalle affettazioni. E non è un caso che sia lui il vero primo scopritore del talento di Giacomo.

Leopardi gli scrive speranzoso, come qualsiasi esordiente spera nel giudizio di colui che ha scelto come proprio “maestro”. Ed è proprio nell’epistolario del “contino” con Giordani che emerge un Leopardi pieno di passione per la vita, che detesta lo status quo dello Stato della Chiesa, che fa vivere in quiete i suoi sudditi, preservandoli da battaglie ed eccessi, ma che tiene tutto nell’ombra, tutto fermo, tutto immobile. Questa è la casa paterna e Giacomo così non riesce a vivere, mortificato nel corpo dai dolori e nella voglia di vedere il mondo, di conoscere. Leopardi non ha vergogna e timore di dire: «Io ho grandissimo, forse smodato e insolente desiderio di gloria…»
Recanati per lui ormai è una prigione, e da Recanati si sente disprezzato: «saccentuzzo», «filosofo», «eremita» lo chiamano per il suo aspetto, specchio di uno studio matto e disperato. «Non mi parli di Recanati», scrive a Giordani, «m’è tanto cara da somministrarmi idee per un trattato d’odio per la patria».

Leopardi, come tutti i talenti italici fu deriso, insultato, isolato e soprattutto schernito dagli intellettuali medi, con medi incarichi, mediocri libri, insulsi successi. Eppure la sua vita è vita rivoluzionaria, alla costante ricerca di liberazione. Dalla biblioteca del padre Monaldo prima, utero in cui Leopardi è cresciuto dopo i nove mesi di gestazione. Utero paterno, perché la madre ha sempre mostrato un algido distacco. Non per cattiveria, ma per «vile prudenza». Madre che è la Natura nel Dialogo della Natura e di un Islandese, e nel film Natura e Madre condividono la stessa voce. Dall’utero paterno all’idiozia accademica, che lo dipinge, e in fondo lo vuole, intellettuale nobile e triste, dallo stile supremo e aulico ma dai temi invariati. Quanta pigrizia in questi giudizi.

Anche da questa seconda prigione Giacomo si libererà, alla volta di Napoli. Lì, ancora giovane ma deformato dalla (pare) tubercolosi ossea che gli piega la spina dorsale e gli porta dolori infiniti. A Napoli con la sofferenza estrema, quella degli occhi che amano la luce ma da essa vengono al contempo feriti. A Napoli dove l’intellighenzia lo accoglie, lo lusinga per poi provarne invidia, timore e infine disprezzo. Napoli di cui ama il clima, la schiettezza, il cibo, i gelati, la frutta. Ma Napoli che desidererà lasciare: «Ora il mio principale pensiero è di disporre le cose in modo, ch’io possa sradicarmi di qua al più presto. Partirò per Recanati, essendo impazientissimo di rivederla, oltre il bisogno che ho di fuggire da questi lazzaroni e pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e bifolchi, degnissimi di spagnuoli e di forche!». Nobili e plebei napoletani tutti ladri e degni delle forche. Sono certo che qualcuno ora denuncerà Leopardi per diffamazione, o me per averlo citato. Napoli città in cui morirà.

Leopardi per tutta la sua vita sogna un’Italia unita. La sua arte non la immagina che all’interno di uno spirito di lotta. E il rapporto con Antonio Ranieri, complesso, amico ma anche rivale. Lui può fisicamente avere le donne e la felicità che lui non riesce a raggiungere. Alter ego da cui non si separerà fino alla morte.

“Il giovane favoloso” è un film con una vera e propria ossessione per i luoghi. Durante tutto il film, la sensazione di accompagnare davvero Giacomo nella sua breve ma intensa vita è fortissima. Mai per un attimo sembra di essere in una bella finzione. E così la biblioteca di Monaldo Leopardi, luogo protettivo e aguzzino al contempo: migliaia di volumi pronti ad aprire visioni, ma anche a giustificare l’ingiustificabile. E poi c’è la colonna sonora che ti tiene in questo secolo con le sue note. Che rende Leopardi sensibilità attuale.

Ed Elio Germano, - la cui bravura in questo film è definitivamente esplosa - è riuscito nell’impresa di non mostrare un Leopardi filosofo del dolore, perché il suo corpo era pieno di dolore. Ma era l’esperienza del dolore corporeo a dargli accesso a una riflessione sul dolore. Sembra questione di dettaglio ma non lo è affatto. Perché il dolore non è soggettivo, ma universale.

Ecco, con queste mie parole rendo onore a Mario Martone, Elio Germano Michele Riondino e Massimo Popolizio perché con il loro sguardo, le loro voci e i loro corpi hanno liberato un uomo grandioso da quasi due secoli di superficialità dando luce a Giacomo Leopardi cercatore di felicità, di verità e di libertà.

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