Dopo “Le idi di marzo”, assicurano George Clooney e lo sceneggiatore Grant Heslov, volevamo fare un film meno contemporaneo, meno “piccolo”, meno cinico. Infatti, hanno girato “Monuments Men” (Usa e Germania, 2014, 118’), la cui storia è (pressappoco) quella vera degli uomini e delle donne che, fra il 1943 e il 1946, tentarono di contenere i danni causati al patrimonio artistico in Europa e in Estremo Oriente dai tedeschi e dai giapponesi, e anche dagli angloamericani (all’inizio del film sono mostrate Montecassino diroccata e “L’ultima cena” bombardata). Voluti da Franklin D. Roosevelt e arruolati da Dwight D. Eisenhower, comandante delle forze alleate, sembra abbiano recuperato cinque milioni di opere trafugate dai nazisti.
Fin qui i fatti, in parte narrati già nel 1964 da “Il treno”, di John Frankenheimer, nella prospettiva della resistenza francese. Quanto al loro film, Clooney e Heslov limitano il racconto al primo gruppo ristretto degli uomini monumento: dirigenti di museo, artisti, mercanti d’arte e intellettuali vari, tutti scelti da Frank Stokes, conservatore dell’Harvard Art Museum (Clooney), e reclutati nell’esercito nonostante età e adipe.
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Come se si trattasse di tornare a girare “Quella sporca dozzina”, Clooney e Heslov si preoccupano di presentare ognuno di loro in una prospettiva epica, affidandone i ruoli ad attori ben riconoscibili, da Matt Damon a John Goodman a Bill Murray. Poi, per garantire una presenza femminile in un film maschile, ci aggiungono Kate Blanchett nella parte di una funzionaria del Jeu de Paume parigino.
A questo punto, Clooney e Heslov suppongono di aver esaurito il loro compito, e lasciano che il film proceda da sé. Per la verità, ogni tanto usano il corpaccione di Goodman per un po’ di colore, e il fascino di Damon (con Blanchett) per una punta di romanticismo. Non si dimenticano poi di presentare i militari tedeschi in tutta la loro cinematografica perfidia (e i russi anche). Infine, per non complicare la vita agli spettatori americani, immaginano che nell’Europa di quegli anni tutti parlassero un inglese fluente, dentisti, contadini, preti, nazisti. Quanto alle sfumature narrative e ai movimenti di macchina, suppongono che non valga la pena di occuparsene. Come volevano, quello che ottengono è un film opposto a “Le idi di marzo”: risaputo, “grosso”, pateticamente entusiasta.
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