Ma il rapporto Krusciov ha anche una parte segreta, assolutamente esplosiva, che è una spietata requisitoria contro Stalin, la sua autocrazia, i suoi delitti. Vi si descrivono le “purghe”, le eliminazioni di massa, le sistematiche violazioni della legalità socialista. Il rapporto viene fatto leggere in segreto a Togliatti in piena notte, da due ufficiali sovietici che glielo mettono fra le mani e poi restano di guardia alla porta della sua stanza d’albergo. La consegna, per il momento, è di tacere. Ma già le prime notizie stanno trapelando. Di fronte a questo cataclisma, la prima preoccupazione di Togliatti è quella di arginare le conseguenze che le rivelazioni potranno produrre nell’universo comunista.
Il Migliore vuole soprattutto prendere tempo. Così, al comitato centrale dove al suo ritorno in Italia rende conto del XX Congresso, parla delle novità politiche, descrive in dettaglio il nuovo piano quinquennale ma resta nel generico. Pochi giorni dopo, mentre i militanti stanno ancora leggendosi sull’“Unità” le ventotto colonne della sua relazione, cominciano a comparire sui giornali borghesi le prime indiscrezioni sul rapporto segreto di Krusciov. Per i comunisti italiani lo choc è indescrivibile. A Botteghe Oscure come alla redazione dell’“Unità” piovono le telefonate di chi vorrebbe una smentita immediata alle «calunnie della stampa borghese». Togliatti sa che ormai la macchina si è messa in moto, che non si può smentire. Ma continua a prendere tempo.

Intanto nel partito è scoppiato il caos. È una specie di psicodramma collettivo che per vari mesi attraversa le sezioni e gli organismi dirigenti, che scuote i militanti di base come gli intellettuali, i braccianti come i professori d’università. I delegati delle federazioni, che vanno in sezione per cercar di dare la linea, spesso rinunciano a intervenire, lasciano che la discussione vada avanti liberamente per giorni interi. La tensione nel Pci ha appena cominciato ad allentarsi quando, il 28 giugno, gli operai polacchi di Poznan insorgono contro il regime di Gomulka. A settembre scoppia la rivolta ungherese, che sarà poi stroncata dai carri armati sovietici. Anche quelli che avevano messo a tacere i dubbi sull’Urss si trovano di nuovo nella tempesta.
Tutto il travaglio di quei mesi Berlinguer lo ha vissuto un po’ defilato, alle prese con gli ultimi scontri nella Fgci. Al contrario di altri, non ha fatto né denunce né autocritiche. Nel militante cresciuto alla scuola di Togliatti il senso del dovere ha prevalso sull’emozione personale. In lui c’è stata l’idea che si doveva tenere unito il partito, far fronte al disorientamento degli iscritti oltre che agli attacchi degli avversari. Ricorda Renzo Trivelli: «Berlinguer era convinto che in quei frangenti la prudenza di Togliatti fosse l’unico atteggiamento giusto. Come lui, d’altra parte, non provava nessuna particolare simpatia per Krusciov, trovava i suoi metodi troppo sbrigativi, troppo avventurosi». Gli interventi pubblici che fa Berlinguer in quel periodo sono cauti ma i dubbi cominciano a venire allo scoperto. A marzo, a una riunione della Fgci, afferma: «Guai se proprio dei giovani comunisti rimanessero indietro, ancorati al passato, e non comprendessero tutta la novità rivoluzionaria del XX Congresso». Aggiunge anche che le critiche sovietiche «a determinati errori e arbitri del passato e all’opera di Stalin» renderanno più facile, adesso, far proseliti anche fra i giovani che diffidavano di certi aspetti del socialismo. Sono le sue affermazioni più esplicite sull’argomento.
Non è sufficiente, di fronte a un problema che sta sconvolgendo le coscienze. E infatti nella Federazione giovanile, a differenza che nel resto del partito, non esplode un vero dibattito. Enrico sembra incerto. Anche i suoi scarsi interventi alle riunioni di partito non brillano. Parlando al comitato centrale del Pci, riunito per convocare l’VIII Congresso, definisce il drammatico scontro che sta lacerando i comunisti come «alcune incertezze che si manifestano nelle nostre file».
Berlinguer in realtà sta vivendo una sua personale crisi. Soprattutto con la repressione della rivolta ungherese ha cominciato a interrogarsi, ad aprire i conti con se stesso. Se in pubblico si attiene alla raccomandazione di Togliatti di «salvare l’unità del partito», nel chiuso delle riunioni della direzione avanza più volte la necessità di non soffocare le critiche, di capire che cosa sta succedendo, di individuare dove si è sbagliato.
Con la pubblicazione dei verbali della direzione comunista si è saputo che aveva fatto anche di più. Il 30 ottobre del 1956 si era tenuta una riunione della direzione, in sostanza per mettere sotto accusa Giuseppe Di Vittorio. Il contadino autodidatta di Cerignola, il sindacalista dalla vita avventurosa conosciuto in tutto il mondo, il grande capo della Cgil non aveva potuto restare in silenzio di fronte alla repressione della rivolta ungherese. Come aveva confidato al suo amico Antonio Giolitti, «l’Armata rossa che spara contro i lavoratori di un paese socialista è inaccettabile». E infatti, quando la Cgil si era espressa all’unanimità a favore degli insorti di Budapest, Di Vittorio aveva rincarato la dose con una sua dichiarazione («L’intervento sovietico viola il principio dell’autodeterminazione degli stati socialisti»), che aveva fatto infuriare Togliatti. «Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia», gli aveva ricordato con durezza.
Fra l’altro la scelta della Cgil e del suo leader avevano dato coraggio al dissenso che tornava a salire fra gli intellettuali e gli operai del Pci. Una cosa insopportabile per il Migliore, che aveva scagliato contro Di Vittorio la più grave delle accuse, di essersi messo contro il partito. Sia pure con toni diversi, tutti gli uomini della direzione, da Amendola a Ingrao, da Longo a Terracini, si erano schierati con il segretario, criticando duramente il capo della Cgil. L’unica voce contraria era arrivata dal membro più giovane e meno carico di storia, dal poco più che trentenne Enrico Berlinguer. «In Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause», aveva detto. Aggiungendo un’altra eresia: «Se ci sono due posizioni fra i compagni della Cgil e il partito si sostengano apertamente». Qualcuno aveva riferito che il segretario della Fgci era stato il solo, nel gelo assoluto che circondava Di Vittorio, ad avere il coraggio e la sensibilità politica di non trattarlo come un appestato.