L’amore. La sorte. I rapporti sbagliati. 
Il regista si confessa. E svela perché 
non somiglia affatto al suo personaggi. "Non saprei come vivere in altro modo" (The Interview People)

Si diverte a sfatare i tanti miti che circolano su di lui. Non vuol essere considerato un brillante autore cinematografico. Continua a ripetere che non assomiglia affatto ai personaggi dei suoi film. E nega di essere un intellettuale. Tutte affermazioni al tempo stesso vere e false, perché Woody Allen è una figura complessa e un nevrotico molto più intelligente del normale che nega la propria genialità.

Oggi è nel pieno di una rinascita prevalentemente europea che ha avuto inizio nel 2005 con il tanto decantato “Match Point” (girato a Londra), ed è proseguita con le riprese di “Vicki Cristina Barcelona”, “To Rome with love” e di “Midnight in Paris”, il più grande successo al botteghino della sua carriera che ha incassato oltre 150 milioni di dollari nel mondo e gli è valso il suo quarto Oscar, per la miglior sceneggiatura originale.

E anche il suo nuovo film: “Magic in the Moonlight” è stato girato nel sud della Francia la scorsa estate ed ambientato negli anni Venti. È un’allegra commedia che deve molto del suo fascino agli attori protagonisti - Colin Firth e Emma Stone.
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Insomma, otto degli ultimi nove film di Woody Allen (l’eccezione è stata “Blue Jasmine”, girato a San Francisco) sono ambientati in Europa, anziché nella sua New York, la città in cui è nato che è stata a lungo il suo originale epicentro creativo. «Il lavoro è una grande distrazione», ironizza Allen: «Se non stessi girando, me ne starei seduto a casa ossessionato dall’idea di quanto sia terribile la vita. Sono sempre in procinto di scrivere una nuova sceneggiatura, di promuovere un film o di realizzarne un altro. Sono stato fortunato nel riuscire a mantenere questo ritmo per la maggior parte della mia vita e non saprei come vivere in altro modo. Girare film in Europa permette inoltre a me e alla mia famiglia di trascorrere estati in posti molto belli e interessanti... ho potuto facilmente trasferirmi a Londra o a Parigi quando non ero a mio agio a New York».

Nell’intervista che segue, il regista parla liberamente del cinema, dell’infelicità e della sua vita molto più confortevole con la giovane moglie, Soon-Yi Previn, figlia adottiva della sua ex compagna, Mia Farrow. Woody e Soon-Yi, oggi quarantenne, vivono in una casa in mattoni rossi tipicamente newyorkese, assieme alle loro due figlie adottive, Bechet, di 14 anni, e Manzie, di 13, che prendono il nome da due musicisti jazz.[[ge:espresso:visioni:1.171839:article:https://espresso.repubblica.it/visioni/2014/07/02/news/woody-un-film-per-conoscere-l-allen-segreto-1.171839]]

Quanto è stato piacevole per lei poter lavorare in Europa negli ultimi nove anni e girare i suoi film in posti come Londra, Parigi, Barcellona, Roma e ora in Costa Azzurra?
«Mi piace lavorare in Europa. Ma se dipendesse da me, girerei sempre a New York perché ci vivo, posso tornare a casa dopo il set e non devo preoccuparmi se il servizio in camera è lento o se mi perdo e devo chiedere a una coppia di turisti lituani che strada prendere per tornare al mio albergo. E quando ho scritto la sceneggiatura di “Match Point”, avevo pensato inizialmente di ambientare la storia a New York ma sarebbe stato troppo costoso così l’ho riscritta adattandola a Londra e la cosa ha funzionato molto bene».

Lei sembra avere una vita quasi ideale come regista, riesce a fare un film all’anno...
«Ho avuto la fortuna di poter lavorare a un ritmo molto comodo. Dirigere un film non è un mestiere così difficile e scrivere per me è molto facile. Scrivo in fretta e non sto lì a ripensarci tormentosamente per mesi. Ho un lavoro molto più facile di quello di un poliziotto o di un maestro di scuola e vivo esattamente come vorrei. Guardo film, passo le serate con mia moglie e le mie figlie, vado a vedere partite di basket e di solito trascorro l’estate in bellissime città come Londra, Roma o Parigi girando dei film».

Resta sempre convinto che la vita sia una lotta esistenziale?
«Riesco a sopravvivere distraendomi. È una via di fuga, lo so, ma funziona. Pensate quante persone si distraggono guardando orribili spettacoli televisivi o partite sportive, concentrando tante energie e aspettative su chi vincerà un insignificante incontro di calcio o andando al cinema. Io continuo a fare film nella vana speranza di realizzare un vero capolavoro anche se mi rendo conto che la maggior parte dei miei film sono dei fallimenti».

Tre anni fa, “Midnight in Paris” è stato il più grande successo finanziario della sua carriera. Questo non le ha permesso di riprendere a girare di nuovo a New York?
«No, perché è molto più costoso. Se ho un budget di 15 o 18 milioni di dollari per realizzare un film, so che con quei soldi faccio molte più cose in Europa. Spesso posso permettermi di scritturare certi attori solo perché hanno degli intervalli nei loro calendari di impegni e sono disposti a lavorare per una piccola frazione del loro solito cachet. E poi, ho continuato a lavorare in Europa perché ho ??ricevuto offerte di finanziamento per girare laggiù. È difficile dire quando potrò tornare lavorare a New York, anche se questa sarebbe la mia prima scelta».

Il fatto di aver cominciato a girare film in Europa le dà la sensazione di essere nel pieno di una nuova carriera?
«No. Sono solo felice di poter continuare a lavorare. Da tempo ormai ho rinunciato all’ambizione di realizzare un film che un giorno verrà proiettato in un festival e reggerà il confronto con un’opera di Kurosawa, di Fellini o di Bergman. Sono costantemente deluso dal mio lavoro anche se mi piace “Match Point” perché il risultato finale è molto vicino a quello che volevo ottenere quando ho scritto la sceneggiatura. Ma di solito non è così. Anche i miei film considerati migliori - come “Io e Annie” e “Manhattan” - sono molto diversi da quello che avevo in mente. “Io e Annie” doveva essere un collage di ricordi ma è diventato un racconto più tradizionale. “Manhattan” l’ho odiato a tal punto che ho cercato di ricomprarlo dalla casa di produzione per un milione di dollari. “Settembre” l’ho rigirato completamente e la seconda versione non era molto meglio della prima».

Come spiega allora il suo successo?
«Sono stato incredibilmente fortunato. Ho avuto la capacità di divertire il pubblico, scrivere battute e raccontare storie che in qualche modo interessano la gente. Ma è pura fortuna e non credo di essermi meritato per questo la posizione privilegiata di cui ho goduto, con la possibilità di girare un film ogni anno e di vivere una vita molto confortevole. Ecco perché uno dei temi principali di parecchi miei film è l’elemento della fortuna. A molte persone non piace ammettere che gran parte del loro successo nella vita è dovuto al puro caso. Preferiscono credere di essere brillanti e di essersi potute affermare grazie al duro lavoro. Ma quanti lavorano altrettanto duramente e hanno altrettanto talento, e però sono dei completi falliti? La maggior parte delle persone rifiuta di ammettere che tanta parte della vita dipende dalla sorte perché questo metterebbe in crisi la loro identità e la convinzione di essere padroni del destino. Io invece sono sempre stato consapevole di essere stato molto fortunato».

Anche la felicità dipende dalla fortuna?
«Sono due cose separate. La felicità spesso dipende dalla capacità di ignorare gli eventi terribili che accadono nella vita e di concentrarsi solo su quelli buoni. Ma raramente le cose vanno come ci aspettiamo. Spesso siamo delusi dai nostri rapporti sentimentali. La maggior parte delle persone non si sente creativamente e intellettualmente soddisfatta dal proprio lavoro. Ma alcuni hanno un loro modo di superare o aggirare la realtà, e si illudono di essere felici. Capita a tutti, e io non voglio certo criticare chi si consola in questo modo. Il mio modo di affrontare le negatività della vita, come l’invecchiamento o il fatto di non vivere all’altezza delle mie ambizioni, tuttavia è quello di continuare a lavorare, guardare le partite o andare al cinema. È il mio modo di illudermi e tenermi occupato per non cadere nella disperazione di fronte al lato più oscuro delle cose. Posso correre sul mio tapis roulant ogni mattina e mangiare cibi sani, ma alla fine la morte verrà a prendermi».

Molti dei suoi film come “La rosa purpurea del Cairo” o il più recente “Midnight in Paris” hanno in comune questa fuga dalla realtà. La tendenza a fantasticare è per lei una dimensione così importante?
«La vita reale è molto spesso più noiosa e inevitabilmente più triste. In un film, puoi controllare tutto quel che succede e puoi indulgere nelle fantasie e nei sentimenti più romantici evadendo dalla realtà. Puoi fare tutto quello che vuoi. Ecco perché è molto seducente e piacevole guadagnarsi da vivere col cinema. Ti svegli la mattina e vai a lavorare circondato da belle donne e tipi brillanti e spiritosi, ti inventi delle storie e tutti si calano nella loro parte. La musica è bellissima. Non vivi la tua vita, ma crei qualcosa che va ben oltre questa dimensione. Qualcosa di bello, ma non di vero. Situazioni divertenti, realizzabili soltanto nella finzione».

Un altro leitmotiv dei suoi film è l’incapacità di molti di trovare il partner giusto. È il destino dei più?
«Spesso uomini e donne si innamorano della persona sbagliata, o di qualcuno che non prova alcun interesse per loro. Le variabili in gioco sono talmente tante che gli esseri umani tendono ad accontentarsi di molto meno di quel che vorrebbero o sperano che il loro cuore li stia conducendo nella direzione giusta. Ma non è sempre così. Parlando con i miei amici mi sono trovato a sostenere che gran parte della nostra vita e della nostra felicità dipendono dal destino. Due persone devono essere molto, ma molto fortunate se si innamorano e riescono anche ad andare d’accordo nella vita di ogni giorno».

Ma non si può arrivare a un compromesso? È davvero così importante che, all’interno di un rapporto, ciascun partner faccia esattamente ciò che vuole?
«È una questione di equilibrio. Bisogna sperare che la relazione non ci imponga di accettare così tanti sacrifici e compromessi da renderci infelici strada facendo. Sono convinto che le persone seguano il loro cuore anziché la loro testa, ovvero che si innamorino per ragioni che non si possono spiegare. O peggio ancora che si innamorino di persone completamente sbagliate sotto ogni aspetto pratico. Spesso non riusciamo a trovare l’armonia con un’altra persona, perché ciascun partner, all’interno di un rapporto, è guidato dai propri desideri e da impulsi contrastanti. Quel che poi complica ancor più le cose è che a volte questi desideri cambiano nel tempo. Improvvisamente, smettiamo di amare, non riusciamo a spiegare perché, ma succede».

L’amore è dunque qualcosa di molto fragile e sfuggente?
«C’è solo da sperare che le cose funzionino. Anche se sei profondamente innamorato di qualcuno hai sempre bisogno di trovare una forma di convivenza che permetta a te, e al tuo partner, di sentirti amato e sicuro, mantenendo al tempo stesso la tua indipendenza. Non c’è una formula che assicuri questo equilibrio. C’è poi da sperare che la nostra passione per qualcosa non dia fastidio all’altro. Tu magari ami Mozart mentre al tuo partner piace la musica country o heavy metal. Fino a quando è possibile conciliare queste diversità c’è qualche speranza».

Insomma, ci vuole fortuna per mantenere un rapporto felice?
«Si tratta solo di incontrare la persona giusta. Mi sono sposato la prima volta quando ero molto giovane. Io avevo diciannove anni, mia moglie diciassette. Volevamo entrambi vivere una nostra vita. E lo abbiamo fatto. Lei era una donna meravigliosa, di grande talento. Una pianista, una filosofa, una persona eccezionale. Era stato un buon matrimonio, ma siamo andati entrambi in direzioni diverse. Poi ho sposato Louise (Lasser), della quale ero pazzo allora e continuo ad esserlo. Siamo rimasti ancora buoni amici. Non ho mai avuto alcun reale interesse a sposarmi. Con Soon-Yi abbiamo cominciato a uscire insieme. Mi era parsa la cosa giusta da fare, e lo fu davvero. Siamo stati molto, molto felici».

Le sue figlie guardano i suoi film?
«No. Preferisco che vedano quelli dei fratelli Marx o alcuni vecchi film classici che hanno un meraviglioso sapore romantico. Non ho mai mostrato loro i miei film perché voglio che mi vedano come il padre e non come una celebrità. In casa mi vedono per quel che veramente sono, anche se non mi tengono nella più alta stima».

Dopo 46 film, sente di aver capito qualcosa di più sulla vita adesso o essa le appare ancora come un enigma inestricabile?
«Non credo che potremo mai trovare un significato profondo o anche solo capire gli elementi importanti della vita. Penso che continueremo a renderci ridicoli, a venti come a quaranta o a sessant’anni. Siamo ancora alle prese con le stesse domande alle quali i più grandi filosofi - dai greci a Kierkegaard - hanno cercato di trovare una risposta. Siamo condannati a vivere gli stessi dubbi, le stesse contraddizioni e delusioni che i nostri predecessori hanno dovuto affrontare nel corso dello sviluppo della civiltà. Non sono riuscito a trovare lumi né risposte soddisfacenti e proprio per questo i miei film riflettono quanto sia sfuggente la felicità, quanto sia impossibile trovare l’armonia e quanto fragili e imprevedibili continuino ad essere i rapporti tra gli uomini e le donne».

I nostri istinti ci tradiscono quando si tratta dell’amore e della capacità di mantenere un rapporto?
«Spesso tradiscono le nostre migliori intenzioni. In teoria potreste anche incontrare la donna ideale. Quella che tutti i vostri amici ritengono perfetta per voi. Una donna brillante, attraente, brava a letto e convinta che siate meravigliosi. Ma voi amate un’altra, la segretaria a cui piacciono i film d’azione e che veste come una prostituta. È pazzesco innamorarsi di lei, ma vi succede e non potete faci niente né cambiare il vostro modo di sentire. L’amore è fuori dal nostro controllo, e nessun grado di saggezza o di coscienza storica e sociale potrà mai cambiare questo aspetto della natura umana».

traduzione di Mario Baccianini

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