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Cultura
giugno, 2015

Biennale di Venezia, guida d'autore

Il Padiglione Centrale. Foto: Alessandra Chemollo/Courtesy: la Biennale di Venezia
Il Padiglione Centrale. Foto: Alessandra Chemollo/Courtesy: la Biennale di Venezia

Il mausoleo australiano o la Via Crucis italiana? Il druido olandese o ?il videomaker ghaneano? Il nostro itinerario ragionato per sopravvivere alla rassegna veneziana

Il Padiglione Centrale. Foto: Alessandra Chemollo/Courtesy: la Biennale di Venezia
Biennale 2015: quali saranno i ? futuri del mondo? Okwui Enwezor, direttore in carica alle arti visive, domanda. E la Venezia delle arti risponde. Enwezor è il primo direttore nero di tanta istituzione. L’unico che oltre al mitico Harald Szemann ha avuto l’onore di guidare sia Documenta che la Biennale. Il più esplicitamente politico. La domanda è impegnativa. Comprende i futuri dell’uomo e del pianeta, della società e del pensiero e soprattutto chiede all’arte di dare un senso alle sue estetiche fatiche e riprendersi un ruolo in questo agitato mondo.

La risposta arriva da ogni continente, tanto che questa volta resta difficile dividere la mostra del direttore dalle mostre nazionali. Perché quella di Venezia è la Biennale per antonomasia. L’archetipo, la più prestigiosa, la più importante. Non solo per motivi anagrafici, o per la meravigliosa cornice, ma per quella struttura da Società delle Nazioni con i padiglioni dei diversi paesi che oggi - in epoca di miscellanea - acquista importanza, regala identità, rafforza l’orgoglio.

Ed è l’orgoglio che fa costruire all’Australia un costosissimo padiglione in pietra nera. Mausoleo battezzato in un caldo pomeriggio, presenti ambasciatori e ministri, architetti e artisti, fotografi e signore sui tacchi, giornalisti e una Cate Blanchett, madrina di verde vestita, sbarcata dagli antipodi per l’occasione. Il futuro al quale guarda l’Australia è un miscuglio di feticci aborigeni e di riciclo di materiali; riferimenti all’ambiente e alla finanza mondiale; paure ancestrali e future inquietudini. Monumentale wunderkammer firmata Fiona Hall dal titolo “Wrong Way Time”.

[[ge:rep-locali:espresso:285155195]]È questo che voleva Enwezor quando ha titolato “All the world’s futures” la sua mostra e chiesto a questa comitiva trans-nazionale: «Quali potranno mai essere i molti futuri di questo sconvolto mondo?». Nel chiederlo ha citato Karl Marx e Walter Benjamin, ha parlato di dialettica (termine che non si sentiva da un po’), ha chiamato in campo insieme agli artisti anche musicisti, coreografi, compositori, scrittori e pensatori di varia natura. Ha battezzato “Parlamento delle forme” un teatro rosso come un cuore posto al centro del grande padiglione nei Giardini, per ospitare ogni giorno visitatori stanchi nelle membra, ma vispi nello spirito. E soprattutto disposti ad ascoltare una lettura di alcune pagine del “Capitale”, unite a performance e recital nella regia di un autore geniale e ridente, energetico e intelligente quale Isaac Julien.

La rimessa in scena del marxismo ha creato non pochi sussulti. Eppure: è davvero Marx ciò di cui parla Enwezor o piuttosto sono gli anni Settanta del secolo passato, il punto di partenza di questo complesso viaggio sui “futuri del mondo”? E degli anni Settanta non è forse l’utopia rivoluzionaria e l’aspirazione all’armonia tra gli uomini che Enwezor sta indicando? Marx è lì come un totem. Più che Marx, è l’ “Angelus Novus” di Benjamin con il viso rivolto alla catastrofe del passato «e la tempesta nelle ali che lo spinge nel futuro» a incarnarsi in una mappa di eventi che scorrono l’uno sull’altro: uno spettacolo che dura ben sette mesi, mettendo a dura prova ogni possibilità di recensione esaustiva.

Dunque nel suggerire alcune istruzioni sarà bene partire dall’attrezzatura necessaria:

1) Guida breve - si acquista nel bookshop - come bussola per orientarsi fra le oltre 53 nazionalità e le diverse generazioni, le date di nascita e le formazioni, le tecniche e le intenzioni dei circa 150 artisti che s’incontrano lungo il cammino.
2) Un consistente tempo a disposizione (due giorni è il minimo: uno per Giardini e uno per l’Arsenale).
3) La serena consapevolezza che la visita sarà inevitabilmente incompleta. Enwezor ha voluto così: fino al 22 novembre «non ci sarà un giorno uguale all’altro», ha detto. Perché questa Biennale è un organismo vivente alla ricerca di forma o di forme per rendere visibile la Storia. O le nostre storie che la raccontano a frammenti.

IL VISITATORE NEL LABIRINTO
E via in cammino: partendo dai Giardini e dai Maestri. Fabio Mauri apre il Padiglione Centrale con uno dei più potenti allestimenti che gli sono stati mai regalati, dove la voce di Pasolini che ci chiede «Cos’è il fascismo?» risuona come dal fondo di un’abside; il muro di valigie si staglia come un altar maggiore e un “The End” dipinto, disegnato, fotografato e persino ricamato in un succedersi di quadri incornicia ritmicamente le mura come una Via Crucis. La meritiamo questa Basilica italiana, omaggio al tempo in cui avevamo il partito comunista più grande d’Europa e gli artisti tra i più bravi d’Europa.

Poche sale più in là, la Storia di Mauri cede il passo al grande spazio della Natura americana. Robert Smithson: artista-filosofo-scrittore legato alla terra, alla potenza del paesaggio, all’infinito del “Wild”. Un uomo che parlò di arte&politica studiando piante e terreni, geologia e fisica e morì in un incidente aereo mentre faceva sopralluoghi. Quel “Dead Tree” di Smithson, alto 10 metri con frammenti di specchi fra le fronde, che giace sul pavimento e si secca sotto i nostri occhi, corrisponde al muro di valigie di Mauri.

Due poli da cui l’intera Biennale si dispiega: Storia e Natura si rincorrono e si confondono fino a perdersi nei rivoli dell’incertezza che ammala il nostro tempo. Se per Smithson era possibile il confronto razionale ed estetico con la natura, per molti artisti più contemporanei è invece complesso persino il rapporto col contado. O meglio la natura dietro casa che la nostra vita digitale rende estranea. Vicino misterioso, che torna ad essere abitato da fate ed orchi come nelle favole dei Grimm.

Herman de Vries con il suo barbone bianco e l’aspetto di un druido, nel padiglione olandese cataloga ritualmente foglie e radici e persino i colori della terra dal verde argilloso delle bolle vulcaniche al rosso delle foreste amazzoniche. E mentre in quello di Francia Cèleste Boursier Mougenot fa danzare con tutta la loro zolla dei veri alberi strappati alla terra, Joan Jonas (in nome degli odierni Stati Uniti) ci avvolge con una visione onirica di giardini e campagne.

Ma è in opere come lo splendido “Vertigo Sea” di Joan Akomfrah che i due poli si fondono. Nato in Ghana e cresciuto in Gran Bretagna, membro del Black Audio Film Collective (gruppo creativo&politico arrabbiato quanto basta) in 80 minuti e tre schermi, Akomfrah racconta l’Oceano. Come luogo di sopraffazione e violenza di uomini sugli uomini. Come origine e fine di tutte le cose. Come discarica del mondo. Come memoria di battaglie e imperi. Come antologia di storie di pescatori e disgraziati naufraghi.

Il film di Akomfrah è perfetto esempio del ruolo che per Enwezor ha l’immagine in movimento: fin dalla sua Documenta del 2002, dove oltre 6oo ore di video regalavano già lì al visitatore l’incompletezza di sguardo. Qui un’altrettanto ampia programmazione ospita opere in bilico tra realtà e finzione.

Nel corso della visita i film chiedono tempo ma molti sono imperdibili: Carsten Holler e Mans Mansson con musica di Kinshasa che fa ballare anche il più stremato dei visitatori; il memorial di Steve McQueen che narra del brutale assassinio di un giovane e bellissimo pescatore delle isole Grenadine che lui - artista&regista vincitore di premi Turner&Oscar - aveva filmato anni prima; la rievocazione di Salvador Dalí nel padiglione spagnolo; l’indagine di Leber&Chesworth sui ruderi dell’ex-Impero sovietico e i tanti film sul lavoro, dalle immagini cristalline e gelide di Farocki a Vincent Meessen del padiglione belga, che con splendido girare di macchina ci racconta la lotta dei Situazionisti d’Africa.

DAI CAMPI E DALLE OFFICINE
A immortalare l’incontro della macro-storia con la micro-storia è poi lo scorticato padiglione greco. Maria Papadimitriou, artista muscolare nel corpo, nel lavoro e nello sguardo severo, non ha ridipinto neanche le pareti quando ha deciso di trasferire da Volos un’intera, vecchia bottega di pellami lavorando sulla metafora del rapporto uomo/animale e affidando a un video il racconto del proprietario, che parla delle bestie, di sé, e insieme di tutti i Greci e di tutta la Grecia.

Dai campi e dalle officine: il futuro disegnato a Venezia riparte dai corpi, dal lavoro, dai bisogni degli uomini. E mai come in questa edizione sembra lontana la vita virtuale, l’immagine digitale, la perfezione dei rendering, la fiducia nella scienza (o almeno nella fantascienza). Solo nell’avvolgente installazione di Moon Kyungwon e Jeon Joonho, in quel di Corea (padiglione s’intende e paese leader nella video sperimentazione) l’azzurro fluorescente di un’atmosfera di là da venire circonda la tuta candida di una creatura che abiterà altri mondi e altri spazi, puliti e immacolati come lei. Un futuro tra i tanti possibili dove si potrà levitare, volare e viaggiare nel tempo. E chissà forse vedere il sol dell’Avvenir di una società felice.

I BOCCIATI
In questo mare magnum ?di Biennale dove val la pena di arrivare fino in fondo lottando contro la fatica e di cercare piccoli tesori (per esempio: ?la sala in cui il concettuale Charles Gaines con algebrici ragionamenti trasforma le lettere in note e traduce in musica d’ambiente i discorsi di Mandela e Malcolm X ) è bene risparmiare le forze. Dunque saltare o correre ?rapidi su padiglioni che non mantengono le promesse. Eccone alcuni.

Gran Bretagna
Deludente Sarah Lucas che in una provocazione di maniera cosparge il padiglione di monumentali falli in resina, calchi dei corpi nudi e aperti delle sue amiche e lavatrici aggravate da allusioni sessuali. Il tutto sullo sfondo di una decorativa pittura gialla, forse il Yellow Cake dei costosissimi barattoli Farrow&Ball.

Russia
Ancora una prova di muscoli&denaro per riempire ?il padiglione di effetti speciali. È da tempo che la Russia punta sulla quantità e dimentica la qualità. Purtroppo anche questa volta “The Green Pavillon” di Irina Nakhova nonostante le intenzioni ?di tutto comprendere (dalle interazioni socio culturali ?ai cambiamenti climatici) ?ci lascia interdetti e confusi.

Romania
Più che da evitare, ?è consigliato solo a chi ama molto la pittura. In totale controtendenza le opere ?di Adrian Ghenie propongono una tecnica che va oltre il virtuosismo. È invenzione ?pura di strati e vernici di colore che costruiscono visioni di un mondo arcaico.

Italia
Grigio e funereo. Completamente privo ?di colore. Zeppo di artisti sacrificati in loculi. Incomprensibilmente commissariato da grandi nomi stranieri (da Kentridge a Greenaway). Penalizzato pure dal burocratico titolo “Codice Italia”, nel padiglione nazionale non si intravede alcun futuro. Oh patria mia!

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