
Allora è stato lampante che il sovrintendente Fuortes ce l’aveva fatta a risanare i bilanci e a risollevare le amare sorti dell’Opera a lui affidate meno di tre anni fa. Un’impresa disperata, pareva a tutti, in molti lo avevano sconsigliato. E invece per un ribaltamento imprevedibile delle condizioni, per le capriole di Muse o sindacati, è oggi forse l’unica cosa che funziona nella Capitale commissariata e davvero traviata. La dolce vita, con il belcanto.
Un cartellone dopo l’altro. Una stagione improvvisamente ricca e poi il colpo d’ala, il progetto riuscito di una fastosa Traviata con la regia di Sofia Coppola e i costumi disegnati da Valentino, il rango di uno spettacolo d’apertura di stagione al Metropolitan di New York. Non di un palcoscenico tormento e afflizione di qualunque melomane degno di questo nome, al quale era stato dedicato un detto popolare per irriderne il destino. Più facile costruire San Pietro, si canzonava, che aggiustare l’Opera di Roma.
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Un tocco magico, si mormora, mentre Fuortes trova sulla sua strada un altro caso spinoso perché i successi spesso trascinano vicende meno elettrizzanti. Come la nomina di commissario dell’Arena di Verona capitata ora tra il suo capo e il suo collo, un pasticciaccio veneto di non poco conto e di conti che non quadrano affatto.
Ma il sovrintendente, 56 anni, origini salentine, viso da spagnolo, una carriera in bilico tra economia, cultura e abilità politica, da ragazzo sognava di dirigere un grande teatro. Ora tratta coproduzioni con l’Opera di Parigi, il Muziektheater di Amsterdam, l’Eno di Londra e il Met di Manhattan. Mentre Sky, la tv del satellite, rompe la fedeltà all’Auditorium e sceglie i marmi del teatro per l’anteprima della serie culto Gomorra 2. E le serate “vietate ai maggiori di 26 anni” dai biglietti ridottissimi sono sempre più affollate. È l’avvicinamento culturale, non lo scarto. Il topos è questo, contemporaneo al di là di ogni previsione.
Appassionato di musica, dalla lirica al jazz, laureato in Scienze Statistiche e Economiche a Roma (milieu di Paolo Sylos Labini e Luigi Spaventa) Fuortes che con Izi (società da cui è uscito) sfornava analisi economiche-culturali (qualcuno sollevò interrogativi su possibili conflitti d’interessi) in piena Roma veltroniana viene nominato nel 2002 direttore del Palazzo delle Esposizioni e delle Scuderie del Quirinale.
Dodici mesi dopo e per dodici anni diventa il deus ex machina del neonato Auditorium, orgoglio di Rutelli e Veltroni e del nume tutelare Goffredo Bettini, burattinaio Ds-Pd che porta al Campidoglio Ignazio Marino. È il nuovo sindaco a proporlo al dalemiano Massimo Bray, ministro dei Beni Culturali, per il teatro dell’Opera (che vuol dire anche Caracalla).
Sotto la sua gestione l’Auditorium si è trasformato. Per i dati ufficiali sarebbe la prima struttura europea per numero di visitatori, seconda al mondo dopo il Lincoln Center di New York. L’Opera, invece, sta sull’orlo del baratro. È sfida allo stato puro. L’adrenalina delle missioni estreme. Come resistere? Al suo arrivo nel dicembre 2013 non trova un palcoscenico, ma un’arena lastricata delle sconfitte di nomi prestigiosi del mondo della cultura.
Come quella del maestro Giuseppe Sinopoli scelto dall’allora sindaco Rutelli, per il sovrintendente l’unico vero tentativo di salvataggio, che dopo una battaglia con i sindacati contro il progetto di riforma considerato troppo manageriale getta la bacchetta e si dimette. I tempi, commenta Fuortes, non erano maturi. Molti anni dopo lo diventano. È lo zeitgeist la risposta della riuscita?
Anche la squadra che ha scelto, naturalmente. Ha confermato Alessio Vlad, direttore artistico opera. Ha nominato Giorgio Battistelli capo della musica sinfonica e contemporanea. Ha convinto l’étoile Eleonora Abbagnato a dirigere il Corpo di Ballo. Mentre il “mondo di mezzo” di Mafia Capitale rivela il lato oscuro della città eterna e contaminata che travolge la giunta Marino, inizia il risanamento del teatro, i tagli, i risparmi.
Rispetto all’anno prima, nel 2015 le rappresentazioni aumentano (da 128 a 170), l’incasso lordo della biglietteria mostra un segno positivo (da 7.730.624 a oltre dieci milioni) e così il numero di spettatori (da 189.370 a 235.012).
L’ufficio del sovrintendente è essenziale come lui, grigio da banchiere d’affari, neanche una cravatta da martedì grasso o da appartenenza artistica o una chioma un po’ scompigliata a segnalare il coinvolgimento culturale e il passato di pianista arrivato al quinto anno degli esami del Conservatorio.
La spiegazione del rilancio è nello stesso stile. Non un fiume di parole, ma una riflessione politico-sociologica. L’operazione non è solo il frutto di una modulata armonia tra gestione e competenza culturale, spiega. È una metafora del paese, nel bene e nel male. Da un lato c’è la bellezza, il talento, la genialità del nostro dna al massimo della potenza. Dall’altro, c’è l’alibi luciferino, il fatto che in nome dell’arte sia stato giustificato tutto, sprechi, inefficienze, clientele, la gestione virtuosa liquidata come nemica della cultura. «Il welfare politico è finito. Se il cambiamento sarà affrontato, la crisi si rivelerà positiva. E non solo per la lirica».
Secondo chi ha lavorato con lui, Fuortes (ex commissario anche del Petruzzelli di Bari) è una macchina da guerra. Un padre padrone che si appropria di quello che gli è affidato. Ma non pontifica, dialoga, è persino cortese, non professa una mistica della cultura e evita scene mondane se non per mero lavoro. In un certo senso è un sopravvissuto alle varie anime politiche che hanno messo mano alla cultura della città. Le fazioni della sinistra in eterna lotta tra loro. La destra quando ha governato e amministrato.
Tanto che nel 2008 Gianni Alemanno, sindaco nero, lo riconferma alla guida dell’Auditorium provocando l’ira degli alleati Fratelli d’Italia. «Non me l’aspettavo», ricorda lui. Anche nel rapporto con il rosario dei ministri dei Beni Culturali, Giuliano Urbani, Francesco Rutelli, Sandro Bondi, Giancarlo Galan, Lorenzo Ornaghi, Dario Franceschini ha sempre mostrato una maestria sopraffina.
È la provvidenziale legge Bray che finanzia i debiti degli enti lirici a permettergli di cominciare a sanare i conti. Ed è Franceschini con Marino e il governatore Zingaretti a sostenere la sua decisione, condivisa dal cda, di mettere alla porta coro e orchestra in un momento drammatico in cui il rosso è di parecchi milioni di euro, gli scioperi sono a oltranza e il maestro Riccardo Muti (che resta direttore onorario a vita) dà forfait. Ma il clima è cambiato e la strada imboccata non scatena il disonore. L’inizio della trattativa con i sindacati è anche l’inizio della resurrezione.
Tanto che un giorno suona il campanello Valentino Garavani accompagnato da Giancarlo Giammetti. The king of the chic è malato di lirica e innamorato pazzo della Traviata. L’incontro diventa un progetto. E la coppia-star pone le condizioni, vuole scegliere il regista e affidare la produzione (già ripagata dal Guinness d’incasso) alla loro fondazione.
La mano di Valentino disegnerà i costumi con Maria Grazia Chiuri e Pier Paolo Piccioli, i direttori creativi della maison. Sofia Coppola accetta. Da Londra atterra Nathan Crowley, scenografo nomination all’Oscar 2015 per Interstellar. In un crescendo di emotività, Coppola rivela di essere persino intimorita, oltre che cugina alla lontana di Muti.
È proprio la forza del destino. L’entusiasmo verso il capolavoro di Verdi da parte di una regista giovane e di sofisticata tendenza può suonare curioso. L’opera non sembra allineata alla velocità e ai contenuti del secolo. «Si sbaglia. Ha in sé il meglio della cultura contemporanea, la musica, l’azione, lo spettacolo dal vivo», sostiene Fuortes. Una sorta di streaming, al contrario del cinema e della fiction, meno statica della prosa? «È così, tanto che adesso artisti come William Kentridge decidono di cimentarsi. Non c’è nemmeno più l’ostilità della lingua, ormai abbiamo istituzionalizzato i sopra-titoli».
Mentre a Verona si apre il confronto sul suo piano di salvataggio dell’Arena (apertura ridotta, chiusura del corpo di ballo, stipendi diminuiti del 16 per cento, zero licenziamenti) il sovrintendente lavora a una co-produzione della Lulu di Alban Berg con il Metropolitan di New York, fino a pochi mesi fa un’ipotesi da sogno a occhi aperti. Intanto la Traviata è in ballo per una produzione televisiva e per rappresentarla Giappone e Spagna si sono messi in lista d’attesa.
In realtà Fuortes è un moltiplicatore. Com’è stato per l’Auditorium, ha in mente uno, dieci, cento modi di fare l’Opera. «M’interessa dimostrare che è sbagliato dire: non si può fare nulla. Il percorso intrapreso vale per Atac e per Ama, per tutto il sistema. La politica è incapace di creare una classe dirigente, deve uscire dalla cosa pubblica». Roma, come l’Italia, ha una potenzialità colossale, conclude. E infatti il vituperato, abbandonato teatro è riuscito a risorgere. Forse qualcuno comincia a pensare che l’algoritmo dell’Opera andrebbe bene per il Campidoglio e anche per il Paese.