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A Berlino l’arte è in un bunker

Il boom di gallerie nella capitale tedesca ha contagiato le costruzioni del periodo nazista. Che sono state ristrutturate per ospitare collezioni di altissimo livello (Foto di Sirio Magnabosco)

Esagerata, Berlino. Nessuno sa bene quante gallerie d’arte ci siano nella metropoli sulla Sprea: chi parla di 400 o 500, chi anche di 600. Dopo il crollo del Muro, il centro della vita espositiva era sulla August Strasse, nella parte orientale. Ora si è spostato più all’ovest, sulla Potsdamer Strasse o nel quartiere di Charlottenburg, dove da poco ha riaperto i battenti una galleria di culto come Contemporary Fine Arts. È il caos calmo della capitale ad attirare sempre nuovi collezionisti, come ora - da Düsseldorf - Julia Stoschek. Ma anche rinomate gallerie internazionali, come la londinese Blain/Southern con i suoi enormi spazi in una ex-tipografia sulla Potsdamer Strasse.

Nulla in confronto ai veri e propri musei aperti negli edifici più tetri ma affascinanti della città: due colossali bunker costruiti durante l’epoca nazista.
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«Berlino è una città aperta, la città giusta per la mia collezione», ci dice Désiré Feuerle davanti al cancello del suo ex bunker ristrutturato. Siamo sull’Hallesches Ufer, il viale sulla Sprea che dal quartiere turco-alternativo di Kreuzberg porta alla Potsdamer Platz, il cuore della nuova Berlino. Qui, al numero 70 del canale, nel gigantesco ammasso in cemento armato che all’epoca del Führer era un bunker delle telecomunicazioni, è appena nato il museo Feuerle: 6.500 metri quadrati per una delle collezioni di arte asiatica più raffinate d’Europa. Che insieme ai capolavori dell’arte contemporanea (opere di Iglesias, di Fuss o Kapoor, per citarne alcuni) fanno di questo edificio uno dei luoghi più originali e interessanti di Berlino. «Da 30 anni colleziono arte asiatica», spiega Feuerle scendendo le scale che ci dirottano subito al pian terreno. All’entrata del bunker una tenda nera lascia intravedere solo uno spiraglio dei duemila metri quadri al primo piano. Il pavimento, i soffitti di tre metri e mezzo e le pareti sono del più grezzo cemento. Le scale per il pian terreno sono grige e in ferro e, come tutti i lavori di John Pawson, di un minimalismo assoluto. L’architetto inglese ha lavorato tre anni ai nuovi spazi del museo: «Con interventi sottili», spiega, «per far sentire al visitatore il fascino del luogo e concentrarne l’attenzione sull’arte esposta». Operazione riuscita: nel bunker sono ancora visibili i segni - fori, muffe, tubi, graffiti - del suo passato. Dietro a una porticina in ferro, una buia Sound room con le note di “Music for Piano Nr 20” di John Cage introduce alla prima apparizione: la testa sorridente di un bambino, una sorta di Siddharta del secolo XI. La statuetta in pietra, di origine cambogiana, è di 11 centimetri: ma, avvolta com’è in una luce tenue, disegna ombre profonde sul pavimento. Come la danza di ombre che quattro figurine bronzee, di un altare del XII secolo, eseguono in un’altra vetrina attorno alla loro fiammeggiante divinità. Tra le mastodontiche colonne del bunker tutto è immerso in un umido silenzio: foto e telefonini vietati, la temperatura oscilla sui 17 gradi. «Voglio che il visitatore s’immerga in un altro mondo e si goda l’arte», dice Feuerle. Per questo non c’è un’etichetta né sotto il fantastico “Budda con terzo occhio” (un bronzo del XIII secolo) né accanto ai torsi in pietra o a “Torus”, un disco in acciaio che Anish Kapoor ha forgiato nel 2002. Qui sono degli “Art Mediators” a svelare ai visitatori opere e misteri del bunker. Non ci vogliono invece guide per ammirare - attraverso sette finestroni - il fascino della Lake room, un’oscura piscina di 1.400 metri quadri che accumula l’energia dell’acqua. Basta poi chiudere gli occhi nell’Incense room per lasciarsi ispirare dall’antica cerimonia cinese dell’incenso.

«I grandi manufatti dell’arte orientale», spiega Feuerle, «hanno qualcosa di erotico e sono delle vere sculture». Per questo, al primo piano del bunker, colpisce l’affinità tra un tavolino della dinastia Ming - un cipresso laccato in rosso - e la foto di un nudo femminile scattata dall’occhio clinico di Nobuyoshi Araki. O un grande tavolo cinese del XVII secolo, dinastia Quing, che fa da cornice a “Smoke”, una delle eteree foto di Adam Fuss. A differenza di quelle più grezze al pian terreno, le pareti del primo piano sono coperte da pannelli di un bianco perfetto, e i tesori dell’arte adagiati su piattaforme leggere. Sulle colonne centrali irritano quasi gli scatti in bianco e nero più hard di Araki. Mentre due installazioni, una filigrana scultura di Zeng Fanzhi in dialogo con “Pozo XII” di Cristina Iglesias (un erotico sepolcro con acqua viva tra le sue radici bronzee), chiudono alla perfezione questo luogo in cui Oriente e Occidente si riconciliano tra loro.

Più luminosi e colorati gli 80 spazi dell’altro bunker berlinese riconvertito a museo, al numero 20 della Reinhardt Strasse. Siamo a due passi dalla Friedrich Strasse, dietro al Berliner Ensemble che fu di Brecht. E la collezione di Christian Boros in questo edificio di cinque piani (al sesto ci abita lui, nel penthouse più spettacolare di Berlino) è da mozzafiato. L’architetto Jens Casper ha lavorato cinque anni per trasformare l’ex Reichsbahn Bunker, il più barocco di tutti quelli costruiti dal nazismo, in un luogo espositivo. Le scale sono ora di un cemento grigio chiaro; i passamano in legno, e ovunque troviamo tracce della storia. Al secondo piano, accanto alla scritta “Rauchen Verboten”, scopriamo una ventola rosso-fuoco. «Serviva a stabilizzare la pressione se arrivavano le bombe», ci spiega la guida Regina Weber. Intatti, al terzo piano, gli impianti di riscaldamento dell’edificio che, sotto le bombe, poteva ospitare fino a 2.500 persone. Negli anni del comunismo - Ddr, Repubblica democratica tedesca - diventò un magazzino della frutta (per cui i berlinesi l’hanno soprannominato Banane-Bunker). Oggi ci vengono turisti ed esperti d’arte da tutto il mondo ad ammirare le mostre che mister Boros (un tycoon della pubblicità, dell’editoria e dell’edilizia) via via allestisce con i suoi circa 700 tesori dell’arte contemporanea. Dai primi lavori dell’islandese-berlinese Olafur Eliasson alle foto di Thomas Ruff, dalle installazioni di Dahn-Vo alle sculture di Ai Weiwei, ci sono tutti i big dell’arte contemporanea. La mostra attuale parte con un voluminoso “Arcobaleno” di Eliasson (la cui factory, sulla Christinen Strasse, è a pochi chilometri da qui). Dopo una filigrana opera dell’argentino Tomas Saraceno, tre stanze sono invase dalle nere pareti in ferro con cui la polacca Alicja Kwade ha eretto il suo “Giorno senza ieri”. Non meno inquietante l’installazione (già esposta nel 2009 al padiglione scandinavo della Biennale di Venezia) di Klara Liden: una stanzetta-Ikea, con tanto di lampadario in carta al soffitto, ma con un’ascia che s’abbatte per terra non appena alle nostre spalle si richiude la porta. Più ironico il mondo di stoffa e fumetti con cui Cosima von Bonin cuce le sue tele di cagnolini “In Loden bianco” o i suoi magici funghetti a scacchi.

Tra le pareti spesse 140 centimetri e i soffitti di due metri, gli spazi dedicati a Wolfgang Tillmans sono i più suggestivi: ne seguiamo lo sviluppo fotografico in un intreccio di balconi e gallerie dal secondo al quarto piano. Lo spazio più grande, di 7 metri per 6, è quello in cui esplode l’“Albero” che Ai Weiwei ha avvitato con bulloni e diversi legni cinesi. Difficile descrivere l’impatto, il rumore e la fragranza che la macchinetta pop-corn - altra scurrile opera di Sailstorfer - effonde per il quarto piano, riempiendo una stanza di soffici palline di mais esplose.
L’unica è organizzare una visita e farci un salto, nei bunker delle meraviglie di Berlino. I biglietti per il museo Feuerle, con i suoi capolavori asiatici, si possono prenotare sul sito http://thefeuerlecollection.org. Quelli per la collezione Boros (un’ora di visita guidata, solo in inglese o tedesco, per gruppi di 12 persone) su www.sammlung-boros.de.

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