La poetessa Marina Cvetaeva sosteneva che la Russia fosse «solo il limite estremo della facoltà terrestre di comprendere». Ciò che vale per la storia e la letteratura, è vero a maggior ragione per la sua musica. Nata quasi dal nulla nell’Ottocento, ci ha dato fior di compositori del calibro di Ciaikovskij, Scriabin, Prokoviev, Stravinskij, Sciostakovic: tutti profondi indagatori, attraverso le note, dell’animo umano. Ma a colpire ancor più l’immaginario popolare è stata la sua scuola pianistica: Rachmaninov, Lhevinne, Judina, Sofronitskij, Horowitz, Richter, Gilels e persino Lang Lang che a quei valori, tramite l’insegnante Gary Graffmann allievo di Horowitz, ha attinto.
La Russia, insomma, è forgiatrice di immensi talenti della tastiera. E oggi, dopo il premio di “Artist of the year” della prestigiosa rivista “Gramophone”, dopo i recenti trionfi del Concerto di Capodanno con i Berliner Philharmoniker, tale scuola ha il suo re, ovvero il ventiseienne Daniil Trifonov, che il pubblico italiano avrà la fortuna di poter ammirare in concerto al Teatro della Pergola di Firenze, il prossimo 14 gennaio, impegnato in pagine di Rachmaninov, Chopin e Mompou.
La scelta di “Gramophone” di eleggere Trifonov non si presta a particolari recriminazioni. Da cinque anni a questa parte, da quando cioè ha vinto i Concorsi Ciaikovskij e Rubinstein, ovunque egli abbia suonato, il suo pubblico ne è rimasto incantato. Fra i pianisti un talento come il suo non appare più d’un paio di volte in una generazione, se capita. E il talento, vale la pena ricordarlo, è solo la partenza. Ci vogliono in più intuizione, perseveranza e, ancora, lungimiranza. Ciò che stupisce in Trifonov è che in questi anni egli ha raggiunto un ideale equilibrio di emozioni e intelletto, obiettivo che a musicisti di maggiore esperienza richiede metà della vita artistica. Si percepisce l’acutezza del suo ascolto, che lo guida verso una precisa idea dei suoni di cui ha bisogno, e del modo in cui realizzarli.
Eppure dando retta alle apparenze, quando Daniil entra in scena con andatura impacciata, la lunga zazzera castana svolazzante, un sorriso timido, le braccia abbandonate sul busto esile e le pallide mani dalle lunghe dita tremanti, non scommetteresti molto sul suo nerbo di interprete. Ma poi, una volta seduto sullo sgabello, mentre inizia a suonare, avviene la metamorfosi. Allora anche le espressioni del volto diventano spavalde, ironiche, a tratti appassionate. Un po’ come succede con la lenta, aurorale introduzione della Sonata in si minore di Franz Liszt, che dopo le prime sommesse battute si sviluppa in un “Allegro energico” intenso e drammatico. Proprio questa interpretazione faceva parte di un disco che riproponeva la registrazione del suo primo recital alla leggendaria Carnegie Hall di New York, sala che rappresenta per la musica strumentale quello che la Scala è per la lirica.
Ascoltandolo, si capisce come mai l’illustre collega Martha Argerich, presente nelle giurie dei vari concorsi a cui Trifonov ha partecipato con gli esiti che ricordavamo, abbia detto di lui: «Non ho mai sentito nulla di simile: la sua tecnica è scintillante e il suo tocco riesce a essere dolce e demoniaco allo stesso tempo».
Liszt, ricordiamolo, fu tra i padri della Scuola pianistica russa: infatti Anton Rubinstein (da non confondersi con Arthur), insieme al fratello Nikolaij fra i fondatori dei conservatori di San Pietroburgo e di Mosca, fu suo allievo e in qualche misura ne ereditò la figura carismatica di interprete. Lo stesso Liszt che ritorna spesso nei programmi di Trifonov e ne potrebbe simboleggiare, assieme a Rachmaninov, il costante punto di riferimento nell’attuale fase di sviluppo artistico. Il suo ultimo album pubblicato dalla Universal, considerato un capolavoro dalla critica mondiale, è infatti ancora dedicato ad alcune delle composizioni più impervie dell’ungherese, contenendo i “Grandes études de Paganini” S141, i Cinque studi da concerto S144 e S145 e gli “Studi d’esecuzione trascendentale” S139 in cui, fin dal “Preludio” in do maggiore, ci presenta il suo biglietto da visita, investendo l’ascoltatore con uno sgargiante torrente di note. Nel quarto di questi studi, soprannominato “Mazeppa”, ci colpisce poi la potenza dei suoi “fortissimo”, che parrebbe in grado di scardinare la tastiera del pianoforte; mentre le difficoltà tecniche del numero cinque (“Feux follets”) sono affrontate con imperiosa agilità: un moto perpetuo delicato e sulfureo, come certi sogni mendelssohniani.
Trifonov vi si conferma appartenere al miglior genere di virtuosismo pianistico del quale, oltre ad apprezzare la consapevolezza delle note suonate, ammiriamo il genio narrativo. Doti che fanno venire in mente le parole di Heinrich Neuhaus, il maestro di alcuni dei più grandi solisti usciti dal conservatorio di Mosca, ovvero Richter, Gilels e Lupu: «Un critico ha ricordato che la parola “virtuosità” proviene dal latino “virtus” che significa “valore”. Certo, quella virtuosità che noi spesso incontriamo nei pianisti, non solo non ricorda le sue origini latine, ma qualche volta costringe a dimenticarle e in modo piuttosto sostanziale. In Gilels si tratta della vera “virtus” in uno stato puro e autentico. In quanto questo “valore-virtuosità” è strettamente legato alle due basilari categorie musicali, al ritmo e al suono». E bellezza, potenza, pienezza, levigatezza, “iridescenza”, come scriveva Neuhaus, sono proprio le caratteristiche del suono di Trifonov.
Non casualmente nell’album “Variations” dedicato all’altro suo nume tutelare di questi mesi, Rachmaninov, compositore che si potrebbe prestare al virtuosismo esteriore, Trifonov predilige i colori tenui, confidenziali, nobilmente melanconici. Un’intepretazione che è quanto di più distante vi sia da quelle di Lang Lang, la star cinese che gli è collega. Il russo gli è diverso nel carattere: timido e introverso, mentre l’altro è giocherellone fino a sembrare un po’ guascone. E pure nell’espressione della sua arte, nel suono: tanto sottile, lirico, ricco di sfumature, quanto il cinese tende al gesto retorico, plateale, magniloquente. La quintessenza dell’anima russa, verrebbe da pensare leggendo Virginia Woolf (“L’anima russa”, edizioni Elliot), con le passioni contenute ma sempre prossime all’esplosione, come in certi personaggi di Dostoevskij.
Eredità russa che il Trifonov ragazzo prodigio non disconosce. «Un ruolo certamente fondamentale nella mia formazione è stato svolto dai miei insegnanti, Tatiana Zelikman a Mosca e Sergei Babajan a Cleveland», ha spiegato a “L’espresso”. «Entrambi devono la loro sapienza a Theodor Gutman e Lev Naumov, a loro volta allievi di Heinrich Neuhaus. Con il loro metodo di insegnamento mi hanno offerto la possibilità di ascoltare un’enorme quantità di incisioni di Rachmaninov, Cortot, Lipatti e Schnabel: questo aiuta parecchio a far comprendere la complessità e la varietà di più interpretazioni dello stesso brano».
Il paragone che spesso ricorre nel suo caso è quello con Vladimir Horowitz. Un’affinità prestigiosa e impegnativa. Trifonov commenta: «Fu un interprete magnifico, di un romanticismo assoluto. C’è una sorta di levità nel suo approccio alla musica, una leggerezza in punta di dita che me lo avvicina. E c’è sempre una linea, una anticipazione, un momento in cui ti viene da pensare: “Che cosa seguirà dopo?”. Direi lo stesso di Vladimir Sofronitsky, specialmente quando esegue Scriabin».
E alla domanda concernente lo scopo dell’arte esecutiva, risponde: «Quello di influenzare le persone in qualche modo, di indurle a prendere a cuore qualcosa, di catturare la loro attenzione, di raccontare una storia, di farle riflettere e di cogliere delle emozioni. Non voglio parlare di ipnosi. È come un pastore che pungola ed esorta le sue anime. Non a caso la gente parla del teatro come se fosse la cattedrale dell’arte».