Una coppia in fuga attraverso porte magiche. Che legano Lampedusa e le "Cronache di Narnia". Nel nuovo romanzo dell'autore de 'Il fondamentalista riluttante', che qui ci spiega perché resta ottimista sul futuro: "La cosa più importante da fare in questo momento è immaginare un nuovo modo di vivere insieme"

L'Occidente fantasy di Mohsin Hamid

Lahore, California, Lahore, New York, Londra, Lahore. La vita di Mohsin Hamid è un andirivieni tra oriente e occidente, e chi conosce i suoi libri lo sa. Nel monologo ipnotico del “Fondamentalista riluttante” lo scrittore pakistano ha raccontato le mille sfumature della diffidenza scatenata dagli attentati dell’11 settembre, nelle “Civiltà del disagio” ha raccolto articoli su diversi aspetti dell’incontro-scontro tra civiltà. Il suo prossimo romanzo (che esce il 24 aprile da Einaudi nella traduzione di Norman Gobetti e sarà presentato giovedì 20 a Milano, a Tempo di libri, da Massimo Giannini) è la storia di una giovane coppia, Saeed e Nadia, in fuga da un paese islamico devastato dalla guerra civile che supera ogni confine - reale e fantastico - in cerca di un posto dove essere felice. Il titolo, “Exit: West”, indica con chiarezza quale direzione prende la loro ricerca della felicità.

In “Exit West” passaggi magici aiutano le persone a fuggire da un mondo in cui «la geografia è destino». Perché ha scelto questo espediente fantasy per raccontare una tema di attualità?

«Per me, quelle porte riflettono l’esperienza emotiva della nostra realtà tecnologica e culturale. Le distanze stanno scomparendo. Gli schermi dei nostri sartphone sono come piccole porte: la nostra coscienza ci passa attraverso e c i ritroviamo all’improvviso a esplorare un altro paese. Anche gli schermi dei nostri computer sono come porte: con Skipe possiamo parlare a una persona che sta in un atro continente e vederla come se fosse di fronte a noi. E naturamente possiamo passare attraverso la porta di un aereo e riemergene qualche ora dopo in un posto molto, molto lontano. Le porte del mio romanzo si adattano a questa realtà emotiva, anche se non obbediscono alle leggi della fisica. Ci sono sempre state migrazioni. E io volevo comprimere ile migrazioni dei prossimi secoli in una manciata di anni. Le porte mi permettono di esplorare “l’apocalisse migratoria” e di vedere se può non essere affatto un’apocalisse, ma al contrario una fonte di speranza».
La copertina di 'Exit West'

Passare attraverso le porte è costoso e pericoloso, e questo naturalmente al lettore italiano ricorda le barche sovraffollate che arrivano a Lampedusa. Ma le porte ricordano da vicino l’armadio delle “Cronache di Narnia”. Perché ha scelto di raccontare la storia delle migrazioni come un fantasy?

«Diventare padre ha cambiato il mio modo di essere scrittore. I libri per bambini mi piacevano da bambiino. Adesso che li leggo ai miei figli mi sono ricordato del loro fascino. Questo ha molto influenzato il mio nuovo romanzo. Come un libro per bambini, questo romanzo prende le parti dei suoi protagonisti. E prende anche le parti del lettore. Non cerca di nascondere il suo significato. Vuole dire esattamente quello che dice. È molto diverso dai miei libri precedenti».

Saeed ha la barba ma non prega, Nadia porta la tunica ma in testa mette il casco da motocicletta, non l’hijab. Li considera normali o eccezionali, oggi, nei tre paesi nei quali lei ha vissuto di più, Usa, Pakistan e Gran Bretagna?

«È normale per gli esseri umani essere eccezionali. Se guardiamo da vicino a qualcuno, scopriamo che tutti sono complicati. Imprevedibili. Non rientrano negli schemi di una sola identità. Saeed e Nadia sono come tutti noi. Sono persone normali. Cioè sono eccezionali, complicati e imprevedibili».

Lei è stato bambino in California, studente universitario a Princeton e Harvard, poi ha vissuto a Londra e ora è tornato in Pakistan. Com’è cambiato l’Occidente in questi anni?

«Ho avuto un’infanzia inusuale. Vivevo nel campus di Stanford, dove mio padre studiava per un Phd, e i miei amici erano bambini di tutto il mondo: un bambino israeliano, il figlio di un poeta afroamericano, uno olandese: sembravamo le nazioni unite dei piccoli. Non avevo la coscienza di una differenza tra di noi. E anche quando sono tornato in Pakistan il senso di ostilità verso l’occidente era molto inferiore rispetto a oggi. A quel punto però cominciò la guerra in Afghanistan e la geopolitica cominciò a contare, con l’idea che ci fosse un mondo musulmano in contrasto con quello occidentale. In quel periodo i giornali hanno iniziato a parlare del jihad, che allora era contro l’Unione Sovietica. Sono tornato negli Usa negli anni novanta, per l’università, e in quegli anni varcare una frontiera per andare a trovare qualcuno non era affatto difficile. Mi ricordo che andavo all’università quando ci fu un tentativo di attacco al World Trade Center nel ’93, e allora per la prima volta mi prendevano in giro dicendo “ah ah, potresti essere un terrorista”. Ma era uno scherzo, appunto: nessuno lo prendeva sul serio».

E quando sono cambiate le cose?

«Quello che davvero ha cambiato tutto è stato l’attentato dell’11 settembre 2001. Io allora vivevo a Londra e ho visto il mondo intorno a me cambiare molto velocemente. Avevo una ragazza italiana, lei viveva a Milano, io a Londra, e improvvisamente attraversare le frontiere, in Europa o verso gli Stati Uniti, è diventato più complicato: ogni viaggio destava sospetti. Insomma, è solo negli ultimi quindici o sedici anni che io ho sentito il conflitto con l’occidente. Per un momento sotto Obama ho pensato che il problema sarebbe diminuito o addiritura sparito, ma non è diminuito affatto, è ancora molto forte in tutto il mondo».

Come finirà? In "Exit West", coome nelle “Civiltà del disagio”, lei sembra essere ottimista...

«Di certo il mondo diventerà differente. Le cose cambieranno molto, ed è un cambiamento che non possiamo fermare. Il mondo degli anni ’60, ’70, ’80 è andato, c’è un mondo nuovo che ci mette di fronte a una scelta. Possiamo guardare la realtà con un approccio nostalgico, sognando di tornare al passato quando le cose andavano meglio, e questo ci porterà xenofobia, bigottismo, sciovinismo, nazionalismo, tribalismo. Oppure possiamo immaginare un nuovo tipo di futuro, un futuro nel quale possiamo vivere serenamente. Se ci attacchiamo al nazionalismo finiremo per rendere la prima metà di questo secolo violenta come la prima metà del secolo scorso: anzi di più, perché le armi oggi sono molto più potenti. Ma l’altra possibilità è che noi ci sforziamo di immaginare un nuovo modo di vivere insieme, e questa è la cosa più importante da fare in questo momento».

Lei ha scritto che anche le persone che non hanno viaggiato affatto sono migranti perché il paese intorno a loro è cambiato. È proprio quello che fa sentire a disagio molti occidentali, che si sentono accerchiati da stranieri in un paese che non riconoscono più...

«Sì, dobbiamo renderci conto che tutti siamo migranti, non solo chi viene da un altro posto: alcuni di noi migrano attraverso i paesi, ma tutti migriamo attraverso il tempo. I genitori dei miei amici italiani che sono nati negli anni quaranta se vanno a Milano oggi si trovano in un posto completamente diverso diverso dalla città che hanno conosciuto negli anni cinquanta o sessanta. E lo stesso capita ai miei amici in Pakistan: camminare a Lahore oggi significa vedere un posto che ha molto poco della Lahore di un tempo. Noi tutti nasciamo per essere migranti. E quando riusciremo a sentirci tutti migranti, impareremo una cosa altrettato importante: che tutto è passeggero. Le cose cambiano e noi dobbiamo imparare a convivere con questa idea. Molti politici oggi vogliono convincerci ad attaccarci al passato come se fosse qualcosa di permanente, ma l’Italia non è più quella di un secolo fa. E neanche l’America può restare attaccata a com’era negli anni Cinquanta. L’idea di rimanere legati a un momento per sempre non è fatta per gli esseri umani: dobbiamo imparare a permettere che il tempo passi. Se ti adatti all’idea che il tempo passa, puoi cercare di decidere quale direzione vuoi prendere. Invece cercare di resistere al cambiamento, all’idea che tutti siamo migranti, è la ricetta per un disastro sicuro. L’Italia è un buon esempio di quello che sto dicendo».

In che senso?

«Dopo la seconda guerra mondiale avete avuto un grande boom economico, e qualcuno potrebbe pensare “ah, sarebbe bello tornare a quel periodo”. Ma se guardi più indietro, a centocinquant’anni fa, trovi un paese povero, e duecento anni prima invece era un paese ricco. Le cose non cambiano solo in una direzione, e l’idea che si possa rimanere statici in una posizione politica ed economica è impossibile. Vale lo stesso per la nostra vita: se noi rifiutiamo di pensare al fatto che moriremo, se cerchiamo di vivere come se vivessimo per sempre, rimandando per ottant’anni le cose importanti, finiamo per morire senza aver vissuto davvero. Anche in politica dobbiamo accettare il cambiamento».

L’occidente considera democrazia, diritti civili, libertà delle minoranze come valori occidentali. Ma lo sono davvero?

«Io credo che siano valori umani. Certo, in occidente c’è una storia intellettuale che mostra l’evoluzione di questi valori, però si possono vedere esempi di questi stessi valori in molti altri posti. Il Pakistan ha avuto due volte un primo ministro donna, e gli Usa mai. L’India è una democrazia, e in questa democrazia ci sono più persone che in tutta l’Europa e gli Usa messi insieme. Non è facile definire quei concetti come “valori occidentali”. Anche se la loro storia è legata all’occidente, è importante riconoscerli come valori umani universali. Anche perché se li definisco occidentali mi aspetto che gli stati occidentali li rispettino, e non sempre è così».

Effettivamente…

«Nell’America che costruiva la democrazia e i diritti costituzionali c’erano gli schiavi, e fino agli anni cinquanta i neri dovevano sedere in fondo agli autobus e non usavano gli stessi bagni de bianchi. L’Italia aveva colonie, la Gran Bretagna aveva colonie: l’occidente non ha sempre vissuto in base a quelli che chiamate “valori occidentali”. Del resto, anche se un aeroplano è stato inventato in America non lo definirei mai una “macchina occidentale”. Le leggi della fisica che hanno permesso di capire come farlo volare sono state stabilite grazie al lavoro secolare di arabi, indiani, greci. Alla fine l’aeroplano è nato ed è una macchina globale: anche la democrazia è così. I greci non sono nati dal nulla, e i testi greci non sono arrivato dal nulla nell’Italia del Rinascimento. La cultura greca in gran parte veniva da paesi più a oriente, e la riscoperta dei testi greci avvenne in gran parte grazie alle traduzioni degli arabi del nordafrica. I valori democratici greci tornarono in Europa attraverso la civiltà islamica. Dobbiamo pensare al grande progetto di democrazia, eguaglianza, legalità, diritti delle donne, diritti dei gay e delle minoraze come a un progetto umano: tutti i nostri antenati hanno lavorato per costruire questi valori, e nessuno ne ha il monopolio».

Quel che è certo è che questi valori sono in crisi: e non solo in occidente, ma in tutto il mondo.

«In effetti in molti paesi occidentali questi valori oggi sono sotto attacco. Dobbiamo essere davvero democratici? Dobbiamo considerare ben accette persone che abbiano religioni diverse o diversi colori di pelle? Queste cose sono apertamente messe in discussione. Non dobbiamo pensare che siccome un paese è in occidente non ha problemi su questi temi, né che un paese orientale non sia interessato alla democrazia, ai diritti civili... Dobbiamo difendere questi valori proprio perché sono universali: considerali solo occidentali significa limitarli».

Come ha scritto Edward Said, la nozione di occidente si è venuta definendo in contrasto con quella di oriente, che era principalemente il mondo islamico. Ma le porte magiche di "Exit West" portano i migranti in paesi occidentali molto diversi tra loro: Australia,Stati Uniti, Giappone. Cos'è oggi l'Occidente?

«L’occidente è un’illusione: non esiste. Se guardi all’occidente geografico, è la California. Ma allora l’Italia e la Grecia sono il Medio oriente, e il Pakistan è ancora più orientale, e Giappone e Cina sono estremo oriente. Ma allora, se l’occidente non è un termine geografico, cos’è esattamente? Quando c’era l’Unione Sovietica, durante la guerra fredda, l’est e l’ovest avevano senso: l’ovest era il paese che si opponeva all’Urss. Ma davvero c’è qualcosa che le nazioni che consideriamo occidente hanno in comune e le altre nazioni non hanno? Io penso di no. Anche perché gli stati che si chiamano occidente sono stati molto attivi in tutto il resto del mondo: avevano imperi, colonizzavano continenti. L’America, l’Asia, l’Australia, sono diventati in un certo senso parte dell’occidente perché erano governati dall’occidente. E per questo oggi in occidente ci sono molte persone che vengono da paesi che venivano visti come “orientali”: Marocco, Pakistan, Nigeria, India. La nozione di occidente sta diventando insostenibile ma le persone non hanno il coraggio di abbracciare la nozione di umanità, perché questa nozione implicherebbe la necessità di trattare tutte le persone nello stesso modo».

In che modo l’ugualianza è legata al contrasto tra Occidente e resto del mondo?

«Proprio l’ideale di uguaglianza che voi considerate come un valore occidentale è un concetto che l’occidente in questo momento non vuole realizzare. Perché questi paesi hanno una superiorità razziale, militare, economica sul resto del mondo. Quando parliamo di occidente ci dovremmo chiedere se stiamo davvero parlando di valori universali o se invece ci riferiamo a un periodo, limitato nel tempo, durante il quale gli stati che chiamiamo occidente hanno avuto sul resto del mondo un potere sproporzionato. Perché se parliamo sinceramente della realizzazione di un ideale di uguaglianza, i cambiamenti non dovrebbero sorprenderci. Ma se invece parliamo di Europa e Nordamerica che dominano il mondo per sempre, beh questo di certo non può funzionare. Sono zone molto importanti del mondo, ma hanno forse il 20 per cento della popolazione mondiale. L’altro 80 per cento prima o poi dovrà riuscire a ottenere una importanza equivalente. Quindi credo che l’idea di occidente è una illusione che diventa sempre più pericolosa: perché esiste principalmente per perpetuare una situazione insostenibile, nella quale una parte piccolissima della popolazione mondiale gode di una fetta sproporionata del potere e della ricchezza del mondo».

Nel mezzo di questa crisi mondiale, lei è tornato a vivere a Lahore. Perché lo ha fatto?

«Prima di tutto perché avevo paura che se non fossi tornato ora non sarei tornato mai più. Poi, i miei genitori vivono qui, stanno invecchiando e voglio stare vicino a loro. Ma anche perché ero molto preoccupato da alcuni cambiamenti che avvenivano in Pakistan. E ho pensato che se tenevo davvero al mio pase dovevo tornare e prendere parte alle cose per aiutare a costruire il tipo di società che io vorrei che ci fosse. Tutte queste cose hanno contribuito, ma questo non vuol dire che vivrò in Pakistan per sempre. Anche perché la mia famiglia non è del tutto pakistana. I miei figli hanno una bisnonna italiana, mia moglie è italiana per un quarto, mia suocera parla bene italiano ed è italiana a metà. La madre di mia suocera era piemontese, ha sposato un pakistano che aveva conosciuto a Londra e si è trasferita in Pakistan per amore sessant’anni fa. Quindi cosa sono i miei figli? Diresti che sono orientali, e di certo lo sono, ma in quali valori credono? Quale cultura gli dà la nonna che parla italiano e fa la pasta?»

Un bel miscuglio...

«Quello che voglio dire è che gli esseri umani sono un gran casino: siamo tutti fatti di persone che venivano da tutti i posti del mondo. Se vai indietro abbastanza siamo tutti mischiati. E quindi la storia del mio ritorno non mi sembra molto diversa dal viaggio che fece la nonna di mia moglie per venire in Pakistan. Quella donna italiana sessant’anni fa si è innamorata, è venuta a vivere qui e ora in miei figli c’è questo pezzettino di italianità. E se un giorno loro si stabiliranno in America avranno nipoti che saranno per un ottavo pakistani. A me sembra molto bello che gli esseri umani possono mischiarsi in questo modo. Nel mio primo libro, “Nero Pakistan”, c’è un personaggio che si chiama Manucci. L’ho chiamato così perché alcune delle più belle storie che abbiamo dell’impero moghul di 400 anni fa sono state scritte da un avventuriero veneziano, Niccolò Manucci. Lui visse alla corte dei moghul e ha lasciato una testimonianza unica di questa sua esperienza, una cronaca così interessante che ancora oggi la gente in Pakistan lo legge. La mia conoscenza della storia moghul la devo quasi interamente a un italiano: e stiamo parlando di quattrocento anni fa. Il mondo in cui viviamo è sempre andato mischiandosi. Lo vedo nella mia città, nel modo in cui scrivo, nei miei figli, nel mondo che mi circonda. Ogni volta che io torno in Pakistan porto con me qualcosa di America e Gran Bretagna, e così facciamo tutti. Del resto voi italiani lo sapete particolarmente bene».

E perché?

«Pensi quanto sarebbe diverso il cibo italiano senza il pomodoro arirvato dal nuovo mondo. Non c’erano pomodori in Italia prima che Colombo mettesse in connessione mondo vecchio e nuovo. E molti altri elementi che pensiamo caratteristici dell’occidente vengono da altre parti del mondo. L’Italia di oggi è completamente un miscuglio. Il rimescolamento di oggi può far paura, ma non sarebbe così se ci rendessimo conto che non è una cosa mai vista, non è una minaccia che incombe sul futuro: è già successo in passato, in mille modi diversi».

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