«Una rivisitazione che non intende certo tradire il messaggio originario di Bach», ci spiega Bahrami, «per questo sa difendersi molto bene da solo. Ma semmai coglierne lo spirito contemporaneo e gettare un ponte verso orecchie abituate diversamente, con il fine di dare ulteriore diffusione a questo gigante, che a circa tre secoli di distanza dal suo passaggio terreno, mantiene tutta la sua attualità e i suoi motivi di straordinario interesse».
Non è che i rapporti fra il jazz e Bach in passato siano stati particolarmente difficili, anzi. Basterebbe ricordare i nomi di Keith Jarrett o del Trio Loussier. E considerare che molti jazzisti che hanno avuto un apprendistato classico hanno mantenuto il loro amore per la musica di Bach. Bud Powell, a esempio, ha spesso incluso un pezzo di questo autore nelle sue esibizioni nei locali notturni, ed è da ricordare in tal senso perlomeno la sua registrazione di “Bud on Bach” del 1957. E che dire poi di Hazel Scott, George Shearing, Alec Templeton, Ron Carter con il suo “Brandenburg concerto” e Max Roach, che al genio di Eisenach ha consacrato negli anni Sessanta una suite? In particolare va menzionato il leggendario Modern jazz quartet: pur non rinunciando all’improvvisazione, la sua caratteristica determinante è stata quella di subordinare qualunque iniziativa solistica agli obblighi della parte scritta. A esempio in dischi come “Blues on Bach” traspare l’inconfondibile inclinazione di John Lewis per forme delicatamente classicheggianti, condite di gruppetti, trilli e canoni, realizzando una fusione riuscita di swing e linguaggio barocco.
Nei gusti di Bahrami ci sono pure gli Swingle singers: i loro brani più noti al pubblico italiano sono le interpretazioni della “Badinerie” che risuona su molte suonerie di cellulari e dell’“Aria sulla quarta corda”, scelta per la sigla del programma televisivo “Quark”, «ma quelli veri, di cinquant’anni fa. E poi amo una meravigliosa esecuzione di Joan Baez dell’aria dalla “Quinta Bachiana brasileira” di Villa-Lobos.
E per non andare troppo lontano vorrei citare pure una meravigliosa interpretazione di Mina della seconda fuga dal primo volume del “Clavicembalo ben temperato”, con l’accompagnamento del flautista Severino Gazzelloni».
Proprio con Mina, Danilo Rea ha inciso una quindicina di dischi. «Con i suoi mezzi vocali avrebbe potuto fare pure la cantante lirica»., commenta. «Non a caso una delle ultime cose che ha registrato è dedicata a una serie di arie d’opera arrangiate da Gianni Ferrio», afferma e conclude l’elogio: «Le sue capacità vocali sono incredibili, degne di una Ella Fitzgerald. Che peccato che non andò in porto un suo duetto con Luciano Pavarotti. Mi chiamò per la produzione del disco, ma poi non so per quale motivo non se ne fece più nulla».

Chiediamo a Bahrami che cosa i concertisti classici possono imparare da quelli jazz. «Per prima cosa ad averne l’apertura mentale. Poi a mettersi un po’ più in gioco, qualità che spesso gli manca perché si chiudono nei loro recinti. E aggiungerei: anche la spontaneità». E che cosa trovano di interessante in Bach i jazzisti? «La gioia del ritmo e la sensualità».
Secondo Rea, pure Bahrami ha nel suo modo di suonare qualcosa di jazzistico: «Questo perché parte dal presupposto che i grandi musicisti del passato erano soliti improvvisare. E che questa abilità, col passare del tempo, è andata persa. Soprattutto a partire dal momento in cui i musicisti hanno creato la categoria dell’interprete. Quindi, paradossalmente, si potrebbe anche sostenere che il jazz ha un po’ ripreso quella che era l’usanza degli antichi maestri: recuperando l’improvvisazione siamo tornati alle origini».
Per Bahrami il modello perfetto di pianista jazz è Bill Evans. Anche per Rea. «Ma ho amato molto anche McCoy. In particolare l’album “My Favorite Things”, considerato da molti critici un disco fondamentale. È la prima registrazione di John Coltrane con la Atlantic Records, la prima che mette in scena lo storico quartetto con, appunto, McCoy Tyner al piano, Elvin Jones alla batteria e Steve Davis al contrabbasso. Con questo disco capii definitivamente quale fosse la strada artistica che avrei dovuto seguire. Infatti a me piace molto partire dal giusto connubio fra melodia e improvvisazione, a 360 gradi».
Fra i grandi interpreti classici, Rea, che da giovane ha compiuto regolari studi diplomandosi in pianoforte a Santa Cecilia, ama molto Sviatoslav Richter, ma in generale «i pianisti del passato da Backhaus a Horowitz e Rubinstein. Oggi i concertisti hanno ottima tecnica ma non sanno suscitare emozioni come quelli di una volta. Nel jazz contemporaneo», conclude amaramente, «sta accadendo la stessa cosa».
Gli facciamo notare che nell’incisione del primo tempo, “Allegro”, dalla Sonata in do maggiore K545 di Mozart, Glenn Gould impiega quasi un terzo del tempo di un altro grande pianista, Claudio Arrau (un minuto e 51 secondi contro 4 e 57). «La musica deve vivere attraverso le interpretazioni di chi la suona», riflette Rea. «La circostanza che con lo stesso spartito Gould impieghi un terzo del tempo di Arrau, esemplifica meravigliosamente il concetto».