Autoritratto di Katharina Sieverding

“La fotografia”, dice l'artista tedesca, “deve opporsi al potere e smontarne le immagini spesso tronfie e comunque false che i potenti ci propinano”

La foto, in bianco e nero, divisa in due. A sinistra, quel suo volto da Sfinge, androgino, ti fissa dietro rettangolari occhiali scuri. I capelli, come sempre tutti tirati indietro, in questa foto del 2017 non sono rosso-rame come nella realtà ma neri, come la giacca (con quattro bottoni) che copre il busto di Katharina Sieverding. E accanto a lei, a destra, nell’altra parte della foto solo un angolo di cemento (leggermente sbrecciato) del muro dell’Akademie der Künste, l’accademia delle Belle arti di Berlino dove incontriamo la Grande Dame della fotografia “made in Germany”.

“Kunst und Kapital”, Arte e capitale: si intitola così non solo questa stupenda foto, ma anche la retrospettiva che la Bundeskunsthalle di Bonn ha appena dedicato alla grande artista tedesca raccogliendo i suoi lavori dal 1967 ad oggi. «Nel 1966», inizia a raccontarci Sieverding, «ho studiato qualche mese qui, ed è bello ricevere oggi il premio Kathe Köllwitz conferito da questa istituzione».

Un premio prestigioso in onore al quale l’artista ha realizzato anche nell’accademia berlinese una bella mostra - aperta sino al 27 agosto - con 19 dei suoi scatti e poster politici più famosi. Insieme ai suoi già leggendari “Testcuts”, e cioè la proiezione su un’intera parete dell’Akademie di ben 580 delle sue immagini scattate in mezzo mondo, dal 1966 al 2010, con la sua Leica. «Non me ne separo mai», dice lei tirandola fuori dalla borsa, «e dopo questa intervista dovrò fotografare anche lei per il mio archivio».

È dalla fine degli anni ‘60 che questa allieva di Joseph Beuys immortala con il suo obiettivo così radicale e surreale sia la situazione politica e sociale nella Bundesrepublik Deutschland, che i volti dei protagonisti della scena artistica. A partire ovviamente dal volto più misterioso di tutti: il suo, da vera sfinge impassibile e sorniona. «La fotografia è ancora un medium interessante per l’arte se la foto conserva il suo carattere enigmatico», spiega indicando il suo autoritratto. «E il viso è sempre incarnazione del mistero individuale, specie in rapporto a chi lo guarda da fuori e alla società».

Già in uno dei suoi primi lavori, la serie “Stauffenberg-Block I-XVI”, partita nel 1969, emergeva l’effervescente dialettica tra il rebus del volto, l’illuminazione fotografica e il buio della storia: 16 autoritratti (immersi in luce rossa) dell’artista stessa, nata nell’anno in cui il colonello Stauffenberg progettava il 20 giugno 1944 l’attentato - fallito - ad Hitler. «Mi interessa il potenziale analitico della fotografia», continua Sieverding. «Mio padre era radiologo e con le lastre mi ha insegnato lo sguardo diagnostico sulla realtà».

Tanto che ancora alla 47° Biennale di Venezia, nel 1997, Sieverding espose delle radiografie a dir poco spettrali del cranio umano. Anche se è dai suoi studi di teatro e cinema che ha imparato a montare i suoi collage fotografici come opere d’arte totali, e soprattutto monumentali. Foto di gruppo, come quelle degli artisti Blinky Palermo e Peter Dürr, arrivano come niente ai 5 metri. La sua gigantesca foto – una lastra dai colori nero, rosso e oro - nel Parlamento di Berlino - “In memoria dei deputati del Reichstag assassinati e perseguitati dal 1933 al 1945” - sfiora i 9.

“Arte e fotografia”, dice convinta Sieverding, “devono opporsi al potere e smontarne le immagini spesso tronfie e comunque false che i potenti ci propinano”. Nella mostra a Berlino rivediamo non a caso un fotomontaggio del 1979 in cui Sieverding riprende Charlie Chaplin, nel “Grande Dittatore”, mentre sprofonda nel fango. A dare il titolo più cinico che mai all’opera è una citazione di Mao: “L’irresistibile corrente della Storia”. In un altro fotomontaggio (in bianco e nero) Kim Jong-un, il dittatore coreano e il suo codazzo di generali, in un’opera intitolata “Global Desire”, se ne vanno felici a spasso per la centrale di Amazon. “I dittatori più sadici che impongono al popolo disumani sacrifici”, commenta lei, “sono poi i più maniaci consumatori di merci”.

Non che il suo sguardo sulla società tedesca, dalla Riunificazione del 1990 ad oggi, sia più morbido. Nella mostra rivediamo il poster di una sua campagna con cui nel 1992, dopo i primi attentati contro gli stranieri, tappezzò le strade di Berlino: vi compare il suo volto terrorizzato, tra una sfilza di coltelli e sotto alla cubitale scritta “Deutschland wird deutscher”, la Germania si fa più tedesca.

O l’altro manifesto con cui sta ora riempiendo le strade di Düsseldorf, e in cui sotto alla candida scritta “Am falschen Ort” - nel posto sbagliato - s’intravede un enorme campo-profughi siriano in Giordania, e l’immagine di due soldati russi. «Un giornale tedesco mi ha appena denominato ‘Die Meisterin’», conclude lei sorridendo, “ma Mastro è titolo che spetta all’artigiano. Per fortuna ci sono oggi tante artiste che come me fanno ed insegnano arte, e Georg Baselitz può smetterla di dire stupidaggini sulle artiste”.

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