Genere e tradimento; uso e usura del corpo e violenza; sesso e odio e invidia; e anche i ruoli sociali: da quello del capo e quello dell'amante e del gregario. E poi, la forza della narrazione che viene dalla ripetitività ossessiva dei gesti, dalle parole, dalla situazione. Sono questi i motivi dominanti della performance, perché più che una pièce teatrale di una performance si tratta, dei Motus, intitolata “Uber Raffiche” e messa in scena a Santarcangelo Festival (prossima tappa: Roma, a settembre).
L'anno scorso il gruppo teatrale romagnolo, tra i più radicali oggi in Europa (si veda lo stupendo “Mdlsx” con la protagonista Silvia Calderoni), aveva messo in scena il lavoro “Raffiche”, ispirato a “Splendid's” di Jean Genet: un gruppo di fuorilegge prende un ostaggio in un albergo di lusso e viene asserragliato dalla polizia. Anche i Motus avevano inscenato la loro storia, ma con otto donne protagoniste al posto degli uomini, in alberghi di lusso, nelle stanze dove tutto risultava molto realistico e il contatto con le protagoniste quasi intimo. Ora invece propongono una versione “nuda” (“nude extension”, è il sottotitolo) non nel senso della nudità del corpo, ma perché messa in scena in ambienti, spogli, nudi, anonimi.
Nel caso di Santarcangelo in palestra di una scuola: uno spazio immenso, crudo, brutale e con pareti di cemento armato. Uno spazio così (ai fini dello spettacolo disegnato come quello di “Dogville” di Lars Von Trier; la citazione è esplicita) toglie l'intimità, ma in compenso permette allo spettatore di scatenare l'immaginazione e costringe le attrici a una presenza fisica molto forte.
Eccole dunque le otto (estremamente brava Silvia Calderoni; notevole Emanuela Villagrossi) mettere in gioco, quasi come se fosse una verità di vita e non una menzogna artistica, la propria appartenenza di genere, ma anche portare fino all'estremo la prova della tenuta fisica dei corpi. “Uber Raffiche” infatti non è uno spettacolo con un inizio e una fine, ma un'azione scenica che dura un'ora, ma viene ripetuta per tre volte, senza soluzione di continuità.
Il testo di Luca Scarlini e Magdalena Barile a volte sfiora la banalità, ma paradossalmente la sua imperfezione finisce per esaltare la regia e la drammaturgia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. E la ripetizione, l'azione a loop, a spirale che si avvolge su se stessa (e viene in mente la musica di Keith Jarrett) rende il tutto simile alla madre di tutte la narrazioni, ossia a quell'incanto che da bambini proviamo nella ripetizione appunto del racconto.
Come i bambini che finiscono per non distinguere tra realtà e finzione, fondando arte e vita nell'immaginazione, così in “Uber Raffiche” lo spettatore resta incantato e incapace di fare un gesto, in apparenza logico: alzarsi dopo aver notato che siamo al secondo o terzo giro della stessa azione. (Gli spettatori sono liberi di uscire e il loro posto viene preso da qualcuno della lunga fila in attesa, fuori dalla scuola). Insomma, si resta prigionieri della drammaturgia e ci si augura che non finisca mai. Un esempio di quella magia da adulti che solo il teatro può creare, perché solo il teatro mette in rapporto diretto le emozioni dei performer con quelle del pubblico.
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Cosa succede nello spazio dove agiscono le otto protagoniste? Intanto c'è un movimento continuo; una danza a piccoli passetti, nervosa, e che richiede virtuosismo, per essere credibile. Ci sono gesti drammatici, ma mai troppo realisti, con le armi quasi sempre spianate, tra seduzioni, accuse, prevaricazioni, minacce. Le donne si chiamano l'un l'altra con nomi maschili. Riflettono sui ruoli all'interno della banda; ma anche, come si diceva, su ruolo sociale (puttana, ex guerrigliera, scrittrice, poliziotta) e di genere. O meglio, fin dal corpo sempre più androgino di Calderoni, il genere viene trasceso, così, come viene trascesa la stessa struttura dello spettacolo.
No, non si tratta di una trascendenza mistica o intellettuale. Dato che lo spettacolo dura tre ore, ripetendo tre volte le stesse scene e che il lavoro del corpo è intensissimo, man mano lo spettatore nota il disfarsi dei corpi e dei ruoli. Verso la fine si hanno davanti otto corpi che pur recitando (benissimo) non sono più prigionieri del ruolo, non sono più solo al servizio della menzogna artistica (qual è sempre il teatro), ma sono appunto otto corpi autentici, affaticati, sudati, liberati. E in quella fatica, in quel sudore si intravvede un nocciolo di una (provvisoria) verità. E' come se alla fine si trattasse di una sfida in cui a esplorare i limiti dell'immaginazione non fosse la mente ma solo i corpi, materia prima, ingovernabile.
Cultura
17 luglio, 2017Al festival un esempio di quella magia da adulti che solo il teatro può creare, perché solo il teatro mette in rapporto diretto le emozioni dei performer con quelle del pubblico
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