Un anno di viaggi e di riprese in ventitré Paesi della Terra. Immagini, nella disperazione umana, di una bellezza straniante. E una telecamera che insegue le sciagure nei campi profughi in Giordania, in Turchia, in Palestina, o in un ex aeroporto di Berlino.
Ci porta dentro le persecuzioni delle minoranze religiose in Bangladesh e le difficoltà dei profughi, scampati in Pakistan, per rifarsi una vita in Afghanistan. O con i giovani messicani che sognano di varcare il Muro che recinge gli States di Donald Trump.
Abbiamo visto in anteprima “Human Flow”, il colossale documentario che Ai Weiwei il primo settembre presenterà al Festival di Venezia. E Il primo messaggio che il più celebre artista cinese lancia col suo nuovo lavoro è che «l’emigrazione è un fenomeno che non possiamo più far finta di non vedere nella sua globalità». Il secondo è che questo inarrestabile “flusso umano” «rappresenta per noi in Europa un test», continua Ai Weiwei nell’intervista esclusiva rilasciata a “L’Espresso”, «per saggiare i valori di fondo che oggi reggono la società europea».
Più che un film quindi questo di Ai Weiwei è un epos di 140 minuti sulle migrazioni che oggi investono in pieno non solo il Mediterraneo, ma fondamenta e norme dell’Occidente. Un dramma umano, sociale ed epocale raccontato da un grande artista nato nel 1957 a Pechino, ma che oggi vive a Berlino e prende posizione sulla politica della cancelliera Merkel. Ma che prima di tutto vede anche sé stesso «come un rifugiato sin da quando sono venuto al mondo».
Attualmente ci sono 65 milioni di profughi sulla Terra: è dalla Seconda guerra mondiale che non vivevamo più un “flusso umano” di queste dimensioni. Cosa significano oggi le migrazioni per la vita di ognuno di noi?
«La cifra che ha citato rispecchia una piccola percentuale di tutte le persone oggi colpite dal fenomeno migratorio. Quelli che noi vediamo arrivare sono solo quelli in grado di muoversi. Non vediamo quelli che sono rimasti indietro, e ancora meno vediamo le cause delle crisi globali che innescano i flussi migratori.».
Non le vediamo, o preferiamo non vederle, le cause delle nuove migrazioni?
«Quel che è sicuro è che il fenomeno migratorio riflette i problemi di fondo di un 21° secolo che deve ora affrontare questa sfida. Guardare al “flusso umano” significa in realtà percepire l’estrema velocità dei ritmi della globalizzazione in cui siamo immersi, e riflettere sulle sue conseguenze che certo non possiamo più far finta di ignorare».
Intanto, davanti al “flusso”, sempre più Paesi richiudono i confini. Nell’89, quando cadde il Muro di Berlino, li hanno chiusi undici Paesi; l’anno scorso erano 70. Ma servono i muri per respingere o a risolvere il Flusso umano?
«L’aumento di confini chiusi segnala il progressivo deteriorarsi della nostra idea di umanità e dei diritti umani. Con l’aumento dei muri crescono anche il protezionismo, le esclusioni e le divisioni sociali. Ed è in questa spirale che all’interno delle nostre società si ampia la forbice tra ricchi e poveri, tra chi è al sicuro e chi chiede sicurezze di base, e tra coloro che approfittano di queste tragedie e tutti gli altri che ne sono colpiti o vengono sfruttati».
L’obiettivo del suo film qual è? Perché l’ha girato?
«Perché penso che non ci potrà essere nessun miglioramento nella nostra società e nel dramma delle migrazioni se non capiamo a fondo il fenomeno. E quel che oggi più che mai dobbiamo capire è che l’umanità è una sola, che siamo tutti sullo stesso pianeta e nati come esseri uguali. Se non accettiamo l’universalità di questi principi l’egoismo non potrà che crescere, e con lui le esclusioni e la brutalità nei riguardi di quelli che riteniamo “diversi”».
Oggi l’Europa è davanti a un bivio: o alziamo muri davanti ai migranti, e l’Ue si spaccherà tra gli egoismi nazionali. Oppure, con i migranti, salveremo i valori umani nati dopo le catastrofi del nazifascismo. Che strada sceglierà il Vecchio continente?
«La situazione dei rifugiati è sicuramente un test per i valori di fondo dell’Europa e per la tenuta della società europea. Quando parliamo dei migranti parliamo in realtà di quale futuro vogliamo. Non ci sono vie di scampo: se l’Europa vuole restare unita e salvare il suo comune benessere, deve aprirsi alle differenze, alla tolleranza, a strutture politiche che garantiscano e proteggano i diritti umani di base».
Lei stesso è stato costretto a lasciare la Cina per vivere qui in Germania: perché ha scelto il Paese della Merkel?
«Come le dicevo, il mio caso è chiaro: io sono un rifugiato da quando sono nato. Mio padre fu accusato di tendenze anti-rivoluzionarie, e tutta la nostra famiglia spedita in esilio. Nel 2011, quando fui arrestato e incarcerato, è stato questo Paese, la Germania, a far di tutto per aiutarmi. Sono molto grato alla cancelliera Merkel e al suo governo che hanno insistito sino ad ottenere la mia liberazione. Ecco perché ho scelto di vivere e lavorare qui».
“We can do it!”: che ne pensa della frase della Kanzlerin, e di una Germania che prima ha accolto un milione di profughi e poi richiuso i confini?
«Quella frase della Merkel non è una esagerazione. La Germania ha tutte le potenzialità per risolvere la situazione dei rifugiati accolti. Certo, anche la società tedesca affronta situazioni drammatiche non solo accogliendo ma anche per l’integrazione dei migranti. Ed anche qui in Germania ci sono state situazioni a dir poco pietose, ad esempio quando sono stati respinti in zone di guerra i profughi afghani».
Il suo film inizia con i versi del poeta turco Nazim Hikmet: “I want the right of first man”. Ma la migrazione è un diritto di ogni uomo, o solo il perseguitato politico ha diritto di asilo?
«Credo che la migrazione sia un diritto umano. Se crediamo che siamo tutti creature umane ciò comporta uguali diritti per tutti, inclusa la scelta di vivere dove si vuole. Ovvio che siamo distanti da questo ideale. Ma per me la questione se accogliere profughi da zone colpite dalle tragedie della guerra, carestie o conflitti religiosi è al di là d’ogni dubbio: noi dobbiamo salvare vite umane e accogliere senza condizioni ogni profugo».
Nel suo film cita spesso la guerra in Iraq del 2003. Il grande “Flusso” è la conseguenza del tragico intervento voluto da Bush?
«Non ci sono dubbi sul fatto che l’amministrazione Bush abbia svolto, e l’attuale politica estera americana continua a svolgere, una parte determinante nel causare quei grandi disastri che hanno già colpito milioni di persone causando morte, povertà, carestie e l’instabilità di intere regioni, accrescendo alla fine la forza di organizzazioni terroristiche. Sì, le cause dei flussi migratori di oggi hanno le loro radici in quell’intervento della Coalizione multinazionale».
Se all’origine c’è la politica, l’Arte che funzione può avere nell’affrontare il “Flusso”?
«Sono un artista, e credo profondamente che l’arte sia in prima linea quando si tratta di battaglie etiche e morali. Questo film è il mio viaggio personale per cercare di capire la globalità della migrazione. Fare un film vuol dire condividere se stessi con altri che, come me, vogliono comprendere il fenomeno: sì, l’arte può creare connessioni per capire meglio il mondo in cui viviamo. E forse per riuscire persino a smuoverlo».
In una scena del film una donna inizia a piangere raccontando le atrocità subite. E lei, Ai Weiwei, si alza e la scena si chiude. Sino a che punto l’arte può raccontare il dolore altrui?
«L’arte può raccontare emozioni in un modo più astratto. Il vero, autentico dolore che la gente prova non può certo essere riprodotto allo stesso modo sullo schermo. Nel film abbiamo scelto di non riprendere scene scioccanti. Questo non vuole essere un film sulle cause della migrazione, ma che mostri piuttosto quale profonda ferita il flusso umano sta aprendo nella nostra idea di umanità».
L’isola di Lampedusa e di Lesbo meritano il Nobel per la pace?
«Se il premio Nobel ha un significato per l’umanità, non c’è dubbio che non solo le due isole ma tutti i volontari e le Ong che lavorano senza posa per soccorrere i profughi abbiano tutti i titoli per ricevere qualsiasi premio».