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Cultura
gennaio, 2019

La regista Pedicini: «Vi racconto le arti marziali come una fede in bianco e nero»

Una scena di 'Faith'
Una scena di 'Faith'

"Faith", un documentario sui Guerrieri della Luce. Che per raggiungere la perfezione dei movimenti si allontanano dal mondo. Vivono come in convento. E rinunciano ai colori. Ma non alla musica tecno

Una scena di 'Faith'
Valentina Pedicini si è diplomata in regia in una prestigiosa scuola di documentari, ha frequentato e vinto con i suoi lavori, anche di finzione, festival nazionali e internazionali e nell’ ultimo documentario, “Faith”, ci porta nella comunità dei Guerrieri della luce, maestri di arti marziali che vivono al riparo dal mondo allenando il corpo, liberando la mente dalle preoccupazioni e dalle menzogne, ballando musica tecno, e pregando.

Pierpaolo Pasolini in “Petrolio” osservava che ci sono cose, anche le più astratte o spirituali, che si vivono solo attraverso il corpo. E Valentina Pedicini riesce a mostrare, subito, non solo che Pasolini aveva colto una realtà degli esseri umani, ma addirittura che solo attraverso il corpo si può giungere alle cose più astratte e spirituali. Di certo nella comunità di “Faith”.

Il monastero di questa storia è situato in un casale agricolo e sono ammessi donne e bambini e quando si è finito di mangiare ciascuno lecca il proprio piatto. Al centro del monastero c’è un guru, un maestro, vestito di bianco lui pure, che della purezza, della volontà, della profezia e della musica tecno ha fatto i pilastri della terra. I bambini sono due, Altair e Olimpia, ai quali il documentario è dedicato e l’unico momento in cui ho avuto l’impressione ci fosse qualcuno con intenzioni documentali è stato quando, mentre la madre le taglia i capelli con il rasoio, Olimpia guarda in camera, con l’intensità sfottente con la quale guardano i bambini.

La prima cosa che impressiona di questo magnifico lavoro è che non sembra ci sia nessuno a filmare, a registrare i suoni, che il primo occhio che guarda sia il nostro. Valentina Pedicini ci regala il mantello dell’invisibilità col quale possiamo osservare la vita quotidiana di questi esseri umani. Non è facile spiegare, con efficacia, cosa sia un regista, tuttavia guardando “Faith” è immediato pensare che Valentina Pedicini sia una grande regista. Quando la incontro, è vestita di nero.

 

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Come descriverebbe i monaci guerrieri?
«Si vestono solo di bianco. Bianco è il loro mondo. Bianchi i corpi, sudati, piegati, genuflessi, arrampicati, divaricati che sfidano la gravità. Bianca la purezza, sentimento di cui si fanno portatori. Bianche le regole per chi viene dal mondo esterno: noi stessi, come team, abbiamo avuto modo di entrare in monastero ed effettuare le riprese soltanto dopo aver abbandonato le nostre divise “civili”. I Monaci hanno fatto una scelta di vita monocromatica: spogliandosi dai beni materiali e dalle menzogne del mondo hanno rinunciato ai colori».

L’ossessione sembra qualcosa di spirituale ed emotivo, qui invece si capisce quanto l’ossessione sia una pratica. Quanto questa verità somiglia al cinema e soprattutto al suo cinema?
«Credo che il cinema nasca sempre da un’ossessione. Credo sia ancora più vero per il cinema del reale, che tendo a chiamare pratica documentaria. Il cinema della realtà costringe a inseguire le proprie ossessioni fuori dalle logiche di tempo, molto più stringenti, del cinema di finzione. Il documentario costringe all’uso del proprio corpo, della propria mente in un appassionante equilibrio tra ragione e follia. Il cinema è l’ossessione di Fitzcarraldo di portare una nave in cima alla montagna. Per me, che sono un’ossessiva anche nella vita privata, il cinema è la forma che mi permette di comunicare con l’esterno. I miei lavori precedenti sono tutte ossessioni a cui ho concesso tempo, spazio e cura per quanto transitoria questa possa essere stata. Nel caso di “Faith”, poi, mi sento come Achab alla ricerca di Moby Dick: inseguire per anni il Mostro degli abissi, cercare e comprendere “l’orrore del bianco”, in continua lotta tra terrore e bellezza. “Faith” è dunque un film ossessivo, di una regista ossessiva, su un’ossessione: la ricerca della purezza, del bene, della fede, della perfezione fisica e mentale, come è praticata dai bianchi monaci guerrieri».

Perché ha scelto il bianco e nero?
«In accordo con Bastian Esser, direttore della fotografia, abbiamo deciso di girare direttamente in bianco e nero, era la scelta più coerente e rigorosa per guardare questo universo, esclusivo ed escludente, misterioso e misterico, bianco e pieno di ombre. Io volevo inoltre indagare la dimensione del “ tempo” e il bianco e nero mi permetteva di rispondere visivamente alla domanda: come si vive in un universo, sì in continua evoluzione “energetica” ma cristallizzato in regole e rituali?».

È una domanda sospesa e astratta, però…
«Sì, ed è in opposizione alla concretezza materica di “Faith” che è film di corpi, volti, pugni, abbracci, balli sfrenati e confessioni scritte. Da un punto di vista tecnico abbiamo operato una scelta radicale che ci ha posto fin dal principio in una dimensione di rigore, facendoci immergere visivamente nell’universo che andavamo a raccontare».

E con quale intento ha lasciato che il padre di Altair ricordasse a suo figlio e a tutti noi che il cucchiaio che sta usando per i cereali è verde?
«In accordo con il montatore Luca Mandrile, abbiamo volutamente lasciato la sequenza di Altair che impara a riconoscere i colori: ci sembrava interessante e fondamentale che l’infanzia in questo film avesse ancora percezione dei colori del mondo, che avessimo il privilegio di filmare questi bimbi mentre imparano “i colori del mondo” prima di dimenticarli per sempre. La sequenza si chiude con il tenerissimo padre che chiede: bianco è più bello? La risposta di Olimpia è “sì” e dice molto di più di quanto avrei potuto scrivere o immaginare di filmare».

Quanta invenzione c’è in “Faith”, quanto cioè ha contato il montaggio.
«Tutto quello che si vede in “Faith” è realmente accaduto. Sotto i nostri occhi (dopo ore e ore di attesa a telecamere spente, ma con lo sguardo e il corpo vigili, pronti a premere Rec). È accaduto a volte in modo inaspettato, sorprendendoci, come solo il cinema del reale permette (la confessione pubblica di Gabriele, i massacranti allenamenti di Laura ed Ekuba, le notti), altre volte le scene sono state semplicemente cercate dopo essere state osservate per giorni e giorni (i balli, il rapporto con i bambini). Se c’è invenzione in “Faith”, è nello sforzo di fare cinema, di trasformare visivamente l’essenza di questa comunità di monaci laici, di filmare l’invisibile (la fede, la devozione, il credo), che ha comportato scelte registiche e tecniche diverse per ogni personaggio. Anche il montaggio ha lavorato quindi con scelte radicali e accostamenti arditi sull’emotività e sul linguaggio cinematografico, aumentando il sentimento di essere sempre e comunque parte di questo universo, amplificando la sensazione della nostra invisibilità».

Come ha incontrato i guerrieri della luce e quanto tempo ha impiegato per entrare nel circolo della loro fiducia?
«Ho conosciuto il Maestro, Laura e gli altri ragazzi della Comunità nel 2008. Avevo incontrato Laura per caso, durante una manifestazione di Kung Fu. Ho girato su di lei il mio primo progetto cinematografico, il primo lavoro, il primo anno di scuola. Una prima volta per me e per loro, che mai avevano accolto telecamere all’interno della Comunità. Ci sono state cose che allora, per pudore e inesperienza, non ho potuto e voluto rivelare, raccontare, filmare. Il risultato è stato un film di quindici minuti, dolcemente violento, che si chiudeva con un “A Laura… To be continued”».

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Come “Ritorno al futuro”?
«Beh, in questi anni ho sempre ripensato a quell’incontro: dovevo chiudere il cerchio. Le domande che mi hanno animato e spinto a interrompere un silenzio lungo undici anni sono state molto umane, pur essendo “Faith” un film sulla devozione. Sono tornata da loro per motivazioni umane e lavorative: volevo rivederli e soprattutto volevo chiudere i conti con il passato. Per undici anni non ho mai più visto e sentito il Maestro e i ragazzi, ma da documentarista posso dire che è come se avessi fatto undici anni di ricerca: il mio ritorno è stato sentito come una dimostrazione di coraggio».

Come li ha convinti a farsi filmare?
«Al Maestro piacciono le sfide e io non avevo intenzione di rifiutare il duello: sentivo che la storia della comunità intercettava alcuni miei temi cinematografici: un manipolo di uomini e donne, l’ambiguità nascosta dietro le scelte drastiche, il rapporto dei corpi con gli spazi fisici e mentali costrittivi. Ho avuto voglia di capire: perché si affida la propria anima a qualcosa di invisibile, perché ci si esclude dal mondo. La curiosità di Ulisse: volevo spingermi verso i lidi fascinosi della devozione, dopo aver attraversato le viscere della terra con “Dal profondo”, l’abisso della storia con “Dove cadono le ombre,” volevo filmare l’invisibile. Il Maestro ha accettato abbastanza velocemente: gli undici anni di attesa sono stati un modo per ottenere la sua fiducia. Credo che in lui ci sia stata anche la voglia di aprirsi al mondo, di traghettare la loro storia fuori dalle mura del Monastero».

E come ha convinto sé stessa a filmare?
«È stato complesso mettere da parte i miei sentimenti e le mie convinzioni, guardare e filmare anche cose che non mi appartengono e a cui non aderisco. Credo sia stato difficile anche per lui vedere la comunità invasa da un piccolo manipolo di “donne e uomini neri”, provenienti dal mondo esterno con tutti i pericoli che questo avrebbe comportato. “Faith” è un film di relazione, come nei documentari classici ma è stato ancor di più un combattimento: uno scontro continuo, un duello all’ultimo respiro, un incontro senza esclusione di colpi. Un duello tra ragione e fede, istinto e certezze, tra etica ed estetica, tra responsabilità e ricerca della verità, tra cuore e ragione, raziocinio e ossessioni. Due mondi e due universi, dentro e fuori. Tra me e il Maestro, tra il bianco e il nero. Non sono sicura di aver trovato e catturato Moby Dick, ma il viaggio è stato uno dei più belli fatti fino ad oggi».

«Bianco l’inverno bianco, la neve bianca,/bianca la notte/Bianca l’insonnia bianca, la morte bianca/e bianca la paura è bianca». In concorso e accolto con successo all’Idfa, il festival dei documentari di Amsterdam, “Faith”, prodotto da Donatella Palermo con Rai Cinema, ha appena cominciato il suo viaggio.

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