
C’era una volta il museo: contenitore d’opere che i reduci dai grand tour cominciarono ad allestire verso la metà del Settecento per proteggere i loro stupefacenti acquisti. E c’è oggi il museo, scatola di tesori misconosciuti che per risplendere deve affidarsi alla promessa di un’esperienza sempre nuova e sempre più emozionante.
«La verità è che l’arte contemporanea oggi non è fatta per entrare in un museo», provoca, ma fornisce le prove, Vincenzo Trione, professore di Arte e media e di Storia dell’arte contemporanea all’università Iulm di Milano, e autore de “L’opera interminabile” (Einaudi): «Un museo vuole trasformare le opere in oggetti fuori dal tempo, distanti, intoccabili. Le opere d’arte contemporanea sono anti-museali. Opere che esigono tempi lunghissimi di realizzazione, come enormi piramidi, che però poi non possono entrare in un edificio. Complesse, debordanti, imponenti, queste opere realizzano la profezia di André Malraux: di un museo senza mura».
Il suo libro è una mappa delle opere d’arte del ventunesimo secolo, non raggruppate però secondo criteri tradizionali, ma sul fil rouge di alcune tendenze comuni: «un corpo a corpo con alcune opere», lo definisce, «trattate, come sosteneva Ágnes Heller, al pari di individui: con la loro personalità, le loro storie. Esattamente come quando ti misuri con una persona e provi a raccontare la sua famiglia, i suoi amori, gli stati d’animo, i riferimenti intenzionali e quelli meno consapevoli, ho cercato di costruire una genealogia».
Il risultato è un museo che non c’è, eppure che visiti stanza per stanza: all’ingresso trovi Anselm Kiefer, a seguire William Kentridge, Mimmo Paladino e Nanni Balestrini, poi Christian Boltanski in compagnia di Sophie Calle. E Peter Greenaway, Matthew Barney, Damien Hirst, Orhan Pamuk, Philippe Parreno, Hermann Nitsch, Björk, Es Devlin, infine Alejandro Gonzáles Iñárritu, della cui opera non resta niente, se non un’installazione che ribadisce il concetto: e se il futuro dell’arte fosse proprio la smaterializzazione?

I musei come puri luoghi di conservazione sono in crisi. Ma anche verso i musei palcoscenici di esperienze deboli cresce l’insofferenza. Dove si rintraccia l’arte destinata a restare?
Vincenzo Trione: «Mentre cominciavo ad allestire la mia Kunsthalle impossibile, ho ritrovato un testo storico di Matteo Marangoni, intitolato “Come si guarda un quadro”. Come si guarda un’opera d’arte contemporanea, mi sono detto. Forse non esiste l’arte, esistono gli artisti, e un’opera d’arte di Björk o di Kiefer nasconde una interessantissima stratificazione di riferimenti estremamente eterogenea. Di recente, lo scrittore Julian Barnes intervistato da La Repubblica ha detto, riferendosi a Damien Hirst e a Kuntz, che l’arte contemporanea non richiede un secondo sguardo. Io, invece, sono convinto che questa arte abbia bisogno proprio di un secondo sguardo perché non è solo shock, ma ha in sé un sistema di riferimenti che vanno molto oltre. L’artista è condannato a restare una specie di errore biologico rispetto alla propria opera: lui muore ma l’opera d’arte ha l’ambizione di rimanere, inseguendo l’immortalità. Ma lo fa provando a essere dentro il tempo, e a dissolversi. La difficoltà di cogliere l’arte oggi è il suo muoversi nella direzione opposta a ciò che vorrebbe un museo tradizionale. L’aspetto che accomuna tutte le opere è che non ci sarà mai alcun museo che le potrà accogliere».
Melania Mazzucco: «Oggi da una parte ci sono quelli che lamentano che il museo è morto e che prevalgano gli eventi dove ti ritrovi magari trascinato da folle smisurate senza avere il tempo di guardare, dall’altra però se ragioniamo sulla fissità del museo ne avvertiamo la sua caducità paradossale: nel momento in cui si cristallizza una collezione, che invece è stata creata in un preciso momento storico, si assassinano le opere stesse: ne perdi la dinamicità, che è il nucleo dell’arte contemporanea. Ciò che io trovo inquietante nel museo è che le opere siano accostate secondo criteri del tutto estrinsechi: individuare scuole, generi è un altro modo per ucciderle. Non ho una formazione critica e mi pongo così dinanzi all’opera: la guardo e cerco di capire cosa voglia dire a me, oggi. E mi piace andare in giro più per gallerie che per musei, perché lì le opere sono messe insieme da un individuo che inscrive la sua stessa biografia nella collezione. Gli unici musei possibili per me sono questi: quelli nei quali c’è qualcuno che fa delle scelte e mette in relazione opere diverse facendole dialogare. Aggiungo che secondo me la cosa più interessante dell’arte contemporanea è la rottura dei generi e la commistione dei linguaggi. Lo sento in letteratura, e mi trovo sempre a disagio quando qualcuno cerca di classificare i miei libri in base al genere: romanzi, o saggi, senza tenere conto dell’arsenale teorico che sta loro dietro. Questo vale ancora di più per l’arte, considerato che un artista oggi può lavorare con video o con materie diverse che vanno dalla plastica al cemento alla sabbia».Materiali, riferimenti culturali diversi, ma anche momenti privati e finzione si mescolano nel “Museo dell’innocenza” di Orhan Pamuk.
Trione: «Concordo: oggi la rivoluzione in atto è il tentativo è di portare vari linguaggi all’interno di un’unica opera. E Pamuk rappresenta l’esperienza di uno scrittore che ha pensato, dal 1982 fino al 2008 quando viene pubblicato “Il museo dell’innocenza”, a un unico progetto che comprende un romanzo, un museo, un catalogo e poi un film, per di più senza che il soggetto sia adattato da altri. Un museo con oggetti reali di personaggi immaginari, che diventa anche un catalogo. Ma ci sono altri artisti con una forte tensione letteraria: Nanni Balestrini, con il progetto “Tristanoil”, che nasce nel 1965 e finisce nel 2013, una vita! Sophie Calle che, di fatto, come dice Enrique Vila-Matas è, prima di tutto una scrittrice. O Kentridge che riadatta “Il naso” di Gogol, Paladino che fa un’operazione simile con Cervantes... In loro c’è una traduzione intersemiotica unica».Anche in letteratura si ragiona di crossmedialità. E non solo per sottolineare una storia o per allungare la vita di un libro. In futuro ci saranno creatori di mondi, più che scrittori puri, autori in grado di destreggiarsi tra forme espressive diverse, per creare complessi universi immaginari: Alessandro Baricco lo sostiene apertamente.
Mazzucco: «Nel modo che ho io di concepire la scrittura, già in partenza coesistono linguaggi diversi, perché un libro è l’intersezione di una storia con l’arte, con la visione di una città, con la ricerca della forma migliore... Certi progetti, poi, non li senti mai terminati, come se l’opera fosse semplicemente un passaggio, un punto fermo perché decidi di separarti di una versione che in quel momento ha una sua finitezza, ma di un’opera in progress: non a caso le ristampe di opere nate venti anni prima sono sempre affascinanti. Il mio rapporto con Tintoretto è stato scandito da tanti passaggi ma è un progetto di una vita intera: prima sono usciti il romanzo e la biografia, già di per sé due forme di narrazione diverse; poi il racconto si è spostato su una grande mostra realizzata a Roma. Ma abbiamo anche immaginato passeggiate veneziane e un reading alla Biennale di Venezia. L’anno scorso è arrivato il documentario, destinato a un visitatore che non ha mai visto Tintoretto, il che ha richiesto un approccio ancora diverso. E moltissimi sono stati i progetti con i musei nei quali si trovano opere di Tintoretto».Trione: «Questa molteplicità di espressioni ci riporta agli artisti di oggi, che hanno in comune il fatto di non realizzare più opere da cornice. Le loro sono tutte opere non instagrammabili. Come un romanzo che non riesci a sintetizzare, e che non può avere un punto di vista privilegiato, ma tantissimi punti di vista, tutti parziali, della stessa identità».
Mazzucco: «Mi ha sempre colpito l’ossessione dei tiranni di possedere opere d’arte, da Napoleone a Hitler. Il museo è potere. Ma se queste opere non possono entrare in un museo, per l’artista è una forma assoluta di libertà».
Trione: «E anche una sfida al mercato. Queste opere non possono essere acquistate se non per brandelli. Né si possono restaurare. Gli artisti contemporanei ti raccontano l’indifferenza al linguaggio di cui si servono. Sophie Calle, per esempio, dice: «Ogni lavoro mi detta il suo linguaggio». Questo è un aspetto che colpisce, specie in opposizione al Novecento, costruito sul mito della specificità dei linguaggi».
Mazzucco: «È un tema che anche molti scrittori avvertono. In effetti, è il tipo di opera che ti chiede una forma, una lingua, un lessico, un’architettura, e tutto questo parte dall’interno dell’opera, mai dall’esterno. Se scrivo un libro di non fiction è perché quella storia può essere raccontata solo in quel modo. Questa libertà che gli artisti si prendono deve riguardare anche gli scrittori, perché non restino imprigionati nei generi. Anche a costo di rischiare l’irriconoscibilità. Un’etica creativa deve guidare le scelte. La scrittura ha bisogno di purezza e indipendenza dal mercato».
Se le opere sono interminabili, non contenibili in un museo, si dissolvono appena realizzate: cosa le salva dalla smemoratezza?
Trione: «La sfida è proprio questa. Chi fa critica dell’arte contemporanea deve cercare di trattenere frammenti da un naufragio, attraverso video o installazioni. Le parti le puoi salvare, il tutto no. Un lavoro che secondo me apre davvero verso il ventunesimo secolo è quello di Iñárritu, “Carne y Arena”, che richiede una fruizione individuale, è vietato portare con sé il cellulare, è un’opera della quale non esiste documentazione video, ognuno va a vederla e percepisce cose diverse, è un lavoro fortemente politico e drammatico perché è il racconto di migranti che stanno attraversando il confine tra Messico e Stati Uniti. Iñárritu si serve della realtà virtuale per far vivere, in quei minuti in cui siamo di fronte alla sua opera, una condizione di empatia con i migranti. Cosa resta di quel lavoro? Nulla. Se non un’esperienza irripetibile e individuale».Se l’opera si realizza in un dialogo individuale con l’artista, come si costruisce un’epica contemporanea?
Trione: «In realtà, la vocazione epica resta, e molti autori, in letteratura, la esprimono in opere-mondo. Romanzi ambiziosi, monumentali, dettati dal desiderio di dominare una realtà sfuggente: potrei citare Don De Lillo, Bolaño, Murakami o Auster. Nell’arte è un’epica fatta di migliaia di frammenti, mille dettagli, i soli che puoi salvare. Parti di totalità infrante e, al tempo stesso, totalità in sé. Di recente mi è capitato di imbattermi in un articolo di Umberto Eco uscito sull’Espresso nel 1998, sull’arte del ventunesimo secolo. Eco ribaltava il concetto di opera aperta. Diceva: l’opera aperta è un’opera che ha un inizio e una fine. L’arte del ventunesimo secolo sarà arte-flusso, nella quale puoi entrare e uscire quando vuoi. Quell’idea di Eco è stata veramente anticipatrice di ciò che sta succedendo oggi: la possibilità di entrare e uscire da un’opera, con libertà di linguaggi. E per tutta la vita: penso a Nanni Balestrini, al suo progetto letterario che diventa dialogo con i computer, si apre al cinema, alla pittura, alla scultura, e nell’arco di cinquant’anni».Anche uno scrittore, in fondo, racconta sempre la stessa ossessione: “L’unica storia”, scrive Julian Barnes.
Mazzucco: «Sì. Anche se questa è spesso la giustificazione di chi si accontenta di fare il logo di se stesso. Però, naturalmente, un’opera è inevitabilmente un lavoro su un insieme di materiali identici, combinati diversamente. Mi interessa molto l’intenzione di questa arte di far provare un’esperienza. Vale anche per un libro: se non cambia il modo di guardare le cose, se non cambia un po’ il lettore, non ha alcun senso».La percezione dell’arte contemporanea è che sia una forma espressiva particolarmente difficile da comprendere.
Trione: «L’opera d’arte si presta sempre a una doppia lettura. Il problema è aiutare a capire, e spesso la critica anziché semplificare crea nuvole di parole che rendono ancora più incomprensibile il contemporaneo».Mazzucco: «Ogni opera può richiedere grande ermeneutica. Però una vera opera ti parla subito. Anche se non ne sai niente. Prendi “Il cretto” di Burri a Gibellina. Puoi anche ignorarne la storia, però ti fa sentire soggiogato. Guardi “I tuoi capelli di cenere” di Kiefer, senza sapere niente di Celan, però senti la forza dell’opera. Dopodiché più sai e più apprezzi, ma questo vale sempre, e per tutto».
Trione: «La critica ha una responsabilità etica enorme verso il pubblico. Ha smesso di far comprendere una serie di nessi, di fare da ponte tra chi guarda e l’opera. Ha iniziato a parlare di sé stessa, di scienza, antropologia, filosofia, e ha perso senso».
Mazzucco: «Una delle cose che mi colpisce sempre delle biennali d’arte è la bassa età dei visitatori rispetto ai musei tradizionali. L’arte contemporanea parla in modo così forte che un ragazzo anche per caso può fare un incontro che lo indirizzerà per il resto della sua vita».
A voi è capitato?
Mazzucco: «Io ho una passione per Kiefer che ho scoperto in Germania da studentessa, nel corso dei miei viaggi in interrail. Devo in generale la scoperta dell’arte contemporanea alla Germania, perché i musei erano gratuiti, e questo significa avere la possibilità di vedere qualcosa, uscire e ritornare. Una città come Roma ha moltissime meraviglie inaccessibili, e tutto ciò che sta dentro i musei non ci appartiene, non le viviamo, non le conosciamo. Kiefer l’ho amato di colpo, senza sapere niente di lui prima. Come Tintoretto: è stato amore immediato, e la sua ricerca, il fuoco, la profondità, la relazione con la poesia continuano ad agire in me».
Trione: «Anche per me è stato Anselm Kiefer la rivelazione del contemporaneo! Lo ricordo perfettamente: era il 1988, stavo facendo un viaggio con i miei genitori a New York. Al Moma vidi una mostra su di lui, e rimasi incantato dinanzi alle sue stratificazioni materiche...».
Mazzucco: «Probabilmente è più facile che questo accada con l’arte che con la letteratura: per scegliere un libro devi cominciare a leggerlo, l’arte puoi attraversarla e imbatterti in qualcosa che ti interessa. Ma io credo che dovremmo tutti riflettere su come rendere più accessibile l’arte e la lettura ai ragazzi. Oggi a scuola rovescerei gli insegnamenti: non farei leggere il Trecento, distantissimo dagli studenti per la lingua, per la forma, per la metrica, ma partirei dal Novecento, dagli scrittori contemporanei. E a 18 anni proporrei lo studio della letteratura delle origini. Prima non riesci a penetrare in quelle pagine, e questo ti disamora per sempre dalla lettura. La cronologia ci uccide. Anche in arte: è più difficile far capire Tintoretto che Kiefer a un quattordicenne. La didattica nella cultura, e la reversibilità del tempo nei programmi sono sfide sulla quali dovremmo ragionare di più per non separarci dalle nuove generazioni».
Trione: «Per questo trovo importante riassumere il ventunesimo secolo non attraverso i movimenti, le tendenze, le generazioni, ma in base alle ossessione di questi nostri contemporanei. L’opera in copertina del libro, “L’uomo che misura le nuvole” di Ian Fabre, sintetizza l’idea: c’è un uomo che sta provando a misurare l’immisurabile, il presente, sfuggente come le nuvole. Ai ragazzi, parlerei di questi artisti».