
Destinazione l’essenziale, per Sir Tony Pappano, Cavaliere di Sua Maestà la regina Elisabetta, Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, Cavaliere di gran croce. E soprattutto uno dei direttori d’orchestra più acclamati al mondo.
Essenziale come le sue mise nere, niente frac né ricercati tagli sartoriali, ma l’eleganza pura delle camicie con il collo alla coreana. Concreto, come i suoi gesti controllati, mani aperte e nude per dirigere, ben più spesso che la bacchetta. Né un vezzo né un rito scaramantico: «Mi faccio il segno della croce, però, sempre prima di iniziare un concerto. E anche quando volo». Senza orpelli, com’è il suo camerino da direttore musicale dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia dove inizia a parlare: divani, pianoforte a coda, ampia scrivania, ma niente di personale ad arredarlo: né un premio, né un riferimento ai suoi riconoscimenti o ai suoi due incarichi: dal 2002 la direzione dell’orchestra di Santa Cecilia di Roma, e dal 2005, contemporaneamente, della Royal Opera House di Londra.
«Vivo in movimento di continuo. La mia vera casa è a Londra. Ma il lavoro è da troppi anni intensissimo: durante la stessa settimana, capita di dirigere tre concerti a Roma e due a Covent Garden. Con due enti così importanti è richiesta una presenza fisica continua: prove, interviste, fundraising. Ci sono periodi di tale intensità che mi sembra di scoppiare. Non riesco più neppure ad andare a trovare mia madre, che vive in Connecticut. Sto attraversando un serio momento di riflessione, per capire come tenere tutto in equilibrio. Come ricucire legami, fatti di persone, e non solo di impegni professionali».
Appena può, è Passignano sul Trasimeno il suo buen retiro, il borgo dove si rifugia con la moglie, la pianista americana Pamela Bullock, presenza costante al suo fianco. «Il suono stesso è per me una droga: mi piace la tv, mi piace la radio, stare con gli altri: sono un suono addicted, il silenzio è raro, e per questo preziosissimo».
Sarà l’anno del sessantesimo compleanno a insinuargli voglia di rinnovamento. Ma non ditelo al suo pubblico: che lo attende sul podio - a Roma fino al 2021, a Londra il contratto scade nel 2020 ma il teatro gli ha già chiesto di restare fino al 2023 - e ovunque vada in tournée. E lo ricolma di un calore sorprendente, senza che il tempo attenui l’entusiasmo.
Prendiamo la Capitale: non c’è il più ostico Novecento che tenga, dialoghi a distanza tra artisti, Arnold Schönberg e George Gershwin, scelte insolite come aprire la stagione sinfonica con un musical rutilante qual è “West Side Story” - storia di bande rivali nella New York anni Cinquanta, in pieno fenomeno migratorio- che non si risolvano in scrosci di applausi e pubblico in piedi. Mentre lui fa la spola, un giorno dopo l’altro, tra una stupefacente mascherata mozartiana su partitura di Cajkovskij per “La dama di Picche”, live da Londra ai cinema del mondo, a un commovente repertorio che mette insieme Mozart e Alban Berg intorno al Requiem per il Giornata della memoria. Prima del quale, contro gli orrori dell’uomo, scandisce: «Lasciamo che sia sempre la musica ad avere l’ultima parola».
Perché è questa una cifra peculiare dell’artista: chiarire le sue scelte. Prendere per mano il pubblico. Introdurlo all’ascolto con la massima semplicità. Poi voltargli le spalle, e accendere il fuoco dell’orchestra. Con la quale il feeling è assoluto.
«Le tournée sono una formidabile occasione per osservare i diversi atteggiamenti del pubblico nei confronti della musica. Degli ascoltatori tedeschi o austriaci ti colpisce la concentrazione, l’educazione musicale, perché è nella loro cultura andare ai concerti. L’orchestra lo sa e vive la serata come una sfida. Per il pubblico russo e in genere dell’est europeo il concerto è un evento sacro: se ne percepisce l’enorme emozione nell’ascolto, la musica è quasi un miracolo. In Asia il pubblico è il più giovane del mondo, non si va ai concerti per tradizione. E poiché alcuni loro miti sono divi della musica classica, penso a Lang Lang, i giovani che vengono ad ascoltarci sono tantissimi: applaudono Beethoven come se fosse musica pop». E l’amore cresce, a latitudini diverse.
«Uno dei complimenti più belli che io abbia mai ricevuto? Dal principe Charles, che viene spesso all’opera, il giorno in cui sono stato nominato Knight Bachelor». I musicisti di Santa Cecilia, in quell’occasione lo accolsero con una Marcia trionfale di Edward Elgar, lasciandolo senza parole. «“Tony, sono particolarmente contento di darti questo riconoscimento, perché quello che hai fatto per l’opera e per la Royal Opera House è davvero speciale, e te ne siamo grati”. È ovvio, mi fa molto piacere, il rapporto col pubblico è importantissimo. Voglio che colga il mio sforzo nel proporgli un repertorio capace di far allargare gli orizzonti. Non mi interessa dire che il pubblico romano è molto conservatore: mi piace che con me faccia un percorso, sia il più possibile informato, che possa ascoltare un pezzo per poi decidere se amarlo o detestarlo. So che la musica contemporanea è difficile. Per questo la introduco».
Come faceva Leonard Bernstein, al quale è spesso accostato? «Lenny, sì, è per me un’ispirazione: era molto interessato ai giovani, a insegnare: nelle masterclass era straordinario. Allo stesso tempo, il mio obiettivo è lavorare con l’orchestra, attraverso brani che le consentano di crescere, di sviluppare un bel rapporto con il pubblico ma soprattutto tra di loro. Scegliere un programma significa valutare questo “sviluppo” dell’orchestra, oltre che da quanto tempo quell’opera non si esegue - “La notte trasfigurata” di Schoenberg, per esempio, proposta di recente all’Auditorium, non si eseguiva dal 2005! - e come si lega a tutto un repertorio di tradizione tedesca, austriaca, russa, francese. E italiana».
L’adorato Giacomo Puccini, da “Turandot” a “Madama Butterfly” – da ultima, proposta a Londra, “La Bohème”: «Amo il suo romanticismo. La sofisticata scrittura armonica, l’uso dell’orchestra, davvero protagonista, e il caleidoscopio di colori. Le sue donne, che muoiono quasi tutte: Puccini le tortura, le sottopone a un martirio prima di elevarle. Penso alla dolcezza di “Suor Angelica”, forse la figura femminile di Puccini che amo di più. E poi c’è la piacevolezza assoluta del pianoforte – si sente che, in primo luogo, era un pianista».
Esattamente come lui, figlio di immigrati a Londra da Benevento, il padre maestro di canto che già a dieci anni lo coinvolge per accompagnare al pianoforte i cantanti.
«Puccini è secondo me l’emblema dell’italianità: grande temperamento con grande cultura. La cosa che apprezzo di più di questo Paese, oltre all’incredibile musicalità, è ovviamente la poesia e la bellezza delle cose. Però siamo in un momento, ma non solo in Italia, di grandi cambiamenti e di enorme confusione. La mia italianità? C’è, è parte della mia identità, però fare musica vuol dire condividere con altra gente un messaggio chiaro, di teatralità, di buon cuore, di lucidità e di generosità. E tutto ciò prescinde dalle origini: è solo il risultato di un lavoro di squadra notevole».
Generosità: una parola ricorrente nel lessico di Pappano. E una lezione che ben si attaglia al presente: «La musica è una grande metafora della democrazia. Perché ha bisogno del contributo di tutti, ma di regole certe e di una gerarchia chiara. C’è un direttore, che però senza orchestra non funziona. Tutti hanno un loro ruolo, e sono protagonisti al cento per cento. Però ci vuole qualcuno che governi le forze contraddittorie: com’è possibile che nella stessa orchestra ci siano un flauto e un trombone, strumenti opposti? Ci vuole chi interpreti cosa vuol dire “forte”, per esempio, nella partitura: cosa significa per il flauto? E per il trombone? Chi ha la nota più importante dell’accordo? In che registro sono? A ciò serve un direttore: a interpretare la partitura, non solo a dirigere con l’ispirazione, ma anche a trovare un equilibrio, definendo il ruolo di ognuno. Vale per la musica, nella democrazia, per il calcio».
Sorride nominando una delle sue passioni: «Un tempo ero davvero un tifoso, seguivo il Chelsea. Da bambino il Liverpool. E il Napoli, ovviamente: papà ne parlava di continuo, il Napoli poteva perdere 5-0, era sempre colpa dell’arbitro». Imita perfettamente il dialetto del padre, la cui memoria il Maestro alimenta tutti gli anni con un concerto, a fine agosto, a Castelfranco in Miscano, paese di origine. E nella serata guida l’Orchestra di Benevento: «Il Sud ha bisogno di iniziative così: è un’occasione per mettere in luce l’orchestra Filarmonica di Benevento, per far conoscere il paesino, il Sannio, e molte belle competenze, che scontano purtroppo i pochi investimenti».
Calma, controllo, parole ponderate più per l’attenzione al dire che per difficoltà linguistiche. E fuoco sotterraneo. Come quando riflette sul ruolo che la musica può avere in questo tempo: «In sala da concerti c’è una comunità di persone. Puoi scegliere che atteggiamento avere: puoi dire “buona sera” a chi ti sta accanto, o rimanere isolato, per i fatti tuoi, per tutto il tempo, pur a pochissimi centimetri dagli altri. È una libera scelta. Ma io sono convinto che la comunità sia una grandissima opportunità».
Comunità ed egoismo, il dilemma cruciale del presente. «Il grande sogno europeo vive un momento delicatissimo. La musica, col suo linguaggio universale, può sicuramente aiutare a ritrovarsi. Il problema è che la gente dà per scontate troppe cose, e agisce d’istinto. La Brexit, per esempio, mi preoccupa moltissimo: nessuno sa come andrà a finire, ma per un’istituzione come la Royal Opera House, dove i cantanti vengono da tutto il mondo, quanto peserà l’esigenza dei visti? Un intreccio che è durato più di 40 anni non si può sciogliere in due. La Gran Bretagna, ma anche l’America di Trump, hanno dimenticato le cose positive che portano gli immigrati: è stato alzato un tappeto dove si nascondeva un razzismo sotterraneo, che ora non ha alcuna vergogna a venire in primo piano. Anche se è sottile, era lì, ed è questo che mi veramente mi fa paura. Vale anche per l’Italia. Gli italiani sono emigrati ovunque, e anche se hanno avuto tante difficoltà, nessuno li ha cacciati via», dice, lui che ha sperimentato in prima persona la fatica di cambiare vita: a tredici anni la famiglia si trasferisce negli Stati Uniti, ed è lì che prosegue gli studi di pianoforte, inizia quelli di composizione e di direzione d’orchestra. Il resto è un nomadismo tra luoghi che contano: l’Opera di Chicago, la New York City Opera, la San Diego Opera.
Fino all’incontro con Daniel Barenboim, che lo porta al Festival di Bayreuth. «Oggi questa chiusura è incredibile: ci deve essere ordine, il rispetto della legalità, ma un nazionalismo così strafottente non va bene».
Ritrova l’entusiasmo solo quando parla di vini, il Maestro, di buona tavola, di convivialità: «È vero, mi piace la buona cucina. E ho una grande passione per i vini: sono eclettico, ma amo da morire i Resling tedeschi, secchi però. I grandi bianchi friulani. I vini francesi della Bourgogne o i Bordeaux: una profondità incredibile a una gradazione contenuta». La porta d’accesso ai suoi momenti di relax, quando si immerge nel silenzio: «Studiare una partitura dove non c’è alcun suono è solitudine nel senso più bello e più profondo del termine. Leggo molto. Da dieci anni a questa parte mi interessano quasi esclusivamente gli autori russi. Tolstoj, Dostoevskij, Gogol, Turgenev». I signori del silenzio: incantato, abissale, sacro.