«Non essere mai troppo supponente, non esagerare con le ore di lavoro e far capire che si sa quel che si vuole». Lo ha detto Mario Monicelli a proposito del rapporto che un regista deve mantenere con la sua troupe. Una lezione di cinema, ma in verità una lezione di vita.
Per lui erano un po’ la stessa cosa, il cinema e la vita, e li ha diretti entrambi con maestria: una vita piena delle cose che raccontava nei suoi film – come la guerra – e un cinema che, nella commedia, lasciava percepire la tragedia umana.
Nato a Roma e laureatosi in Lettere e Filosofia, ha fatto il suo ingresso nel cinema in punta di piedi, recensendo film per la rivista Camminare. Il suo esordio da regista è stato un cortometraggio macabro, tratto da una novella di Edgar Allan Poe, Il cuore rivelatore; l’ultimo ciak lo ha girato in Libia, per il film Le rose del deserto. Anche se credeva che «meno ciak giri, meglio è», per questo preferiva il piano sequenza.
Nel mezzo del cammino, ha fatto la Guerra e anche la Resistenza, ha vinto i principali premi cinematografici e ricevuto più di una candidatura al Premio Oscar; ha diretto Mastroianni, De Sica, Totò, Anna Magnani; ha dettato le regole della Commedia all’italiana, quella di una volta, ancora parecchio neorealista.
Negli ultimi anni, ha continuato a militare a modo suo, partecipando al documentario collettivo sulle contestazioni al G8 di Genova, Un altro mondo è possibile, e a quello sulla questione palestinese, Lettere dalla Palestina. Esattamente come il padre, scrittore socialista e fondatore della prima rivista italiana di cinema, Mario Monicelli ha preferito dirigere anche la sua fine; ormai malato terminale, si è lasciato cadere dal quinto piano dell’Ospedale San Giovanni di Roma, la sera del 29 novembre 2010.
A dieci anni dalla morte, vi riproponiamo l’intervista firmata da Nello Ajello alla vigilia del suo 94esimo compleanno
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