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Cultura
dicembre, 2020

Tracey Emin: «Dopo vent'anni di provocazioni nella vita e nell'arte cerco solo l’amore»

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Odiata o idolatrata, ha piegato pittura, scultura, fotografia alla sua idea di libertà. Ha fatto scandalo con “My bed”, ha conquistato la Biennale e il Musée d'Orsay. E oggi, in convalescenza dopo un delicato intervento, assicura: «Tornerò a dipingere»

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Nel mondo dell’arte contemporanea, la britannica Tracey Emin è tutt’ora una delle più controverse, criticate, condannate ed apprezzate star. “Enfant terrible’” dell’universo artistico globale, la Emin ha riempito le pagine dei rotocalchi di gossip ma anche dei cataloghi di Sotheby’s e Christie’s, che valutano e rivalutano le sue opere vendendole sui mercati di Londra e New York a prezzi da capogiro.

La Emin sfonda la soglia della notorietà mondiale nel 1997 con “Everyone I Ever Slept With”, una tenda da camping tappezzata dai nomi dei suoi amanti casuali, in mostra alla Royal Academy di Londra: l’installazione fu possibile grazie ad un collezionista d’arte e business man eccellente: Charles Saatchi, che la scopre, ne finanzia i primi anni di carriera e acquista la tenda per la sua collezione privata. Due anni dopo, nel 1999, Emin è tra i quattro finalisti dell’ambito Turner Prize con il famoso “My Bed”: installazione costituita da un letto disfatto e sporco, coperto di condom usati e lingerie macchiata di sangue.
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All’epoca Tracey rivela di aver trascorso su quel letto una settimana, tra incontri sessuali casuali, consumo di droga ed alcol. Stampa, critica e collezionisti la criticano, la condannano ma la riabilitano rapidamente, dopo che il pubblico ne fa un’icona di donna di modeste origini, sincera e coraggiosa, che parla apertamente della sua vita intima, dei due stupri subiti da adolescente (il primo a 13 anni) e dei problemi di relazione con l’altro sesso.

Dopo più di due decenni, l’artista continua a far parlare di sè. Persino quando interrompe un talk show live su Channel 4 intitolato “Is Painting Dead?” (La pittura è morta?) completamente ubriaca, lasciando studio e ospiti, e giustificandosi, dopo, così: «Non sapevo che fosse in diretta, avevo bevuto un po’». Nel 2007 viene scelta dal British Council per rappresentare il British Pavillion alla Biennale di Venezia, dove esibisce opere fotografiche, quadri, patchwork e sculture in legno sotto il titolo: “Borrowed Light”. Nel 2019 la Whitechapel Gallery di Londra ospita una sua retrospettiva che include un grande numero di opere: ci sono le scritte a neon con filosofia dell’amore da social media - “You Forgot to Kiss My Soul” (Hai dimenticato di baciarmi l’anima, 2001), o “Keep Me Safe” (Tienimi al Sicuro, 60 mila sterline all’asta nel 2007; Emin donò la somma in beneficenza). Ma anche i disegni di conigli o altri animali, criticati per mancanza di tecnica, ma venduti più che bene - dalle 10 mila sterline in su.

Avevo incontrato l’artista all’inizio dell’anno al lancio di un libro al White Cube in Mayfair, quartiere chic di Londra dove si trovano Sotheby’s e Christie’s. Mi aveva colpito per eleganza, magrezza (aveva perso almeno 15 chili rispetto all’anno prima), e sobrietà assoluta: beveva solo acqua minerale, era in piacevole, misteriosa compagnia maschile, ma le scappavano ancora locuzioni colorite: «It’s fucking cold today!», fa un freddo della miseria, mi aveva detto lamentandosi del clima. In realtà, l’artista è da due anni malata di tumore: di recente, ha subito una complessa operazione chirurgica. L’intervista si svolge per telefono, causa pandemia. Tracey si sposta dal letto al divano. «Abbi pazienza, cammino ancora lentamente». Il tono è quello usuale: da ragazza abituata a sdrammatizzare.
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Sei un’icona della scena artistica mondiale. Qual è il tuo attuale rapporto con critica e pubblico?
«Quello con la critica è sempre stato un rapporto difficile e mi ha fatto molto soffrire. I critici d’arte sono stati crudeli e spietati verso di me. Dai tempi della tenda esposta alla Royal Academy non hanno fatto che distruggere la mia immagine e la mia reputazione, con tutte le motivazioni possibili. Mi accusavano di essere sfacciata, di non saper parlare inglese correttamente: vengo dalla classe operaia di Margate, e il mio accento all’epoca non era quello più raffinato che senti ora. Il momento peggiore è stato quello della Biennale di Venezia; criticavano le mie minigonne, le mie magliette scollate… Soprattutto le donne. Una di loro mi diede della stupida sul Financial Times, un’altra disse che la mia arte non era di suo gradimento… Potrei continuare».

Immagino rabbia e delusione. Come si è evoluto il tuo stile da allora?
«Da allora, e soprattutto negli ultimi due anni, ho voluto concentrarmi su tre elementi in particolare: arte in senso classico - pittura e disegno -, amore e casa. L’arte per me è essenziale: cibo per l’anima e per lo spirito. Ho rivisto i lavori di pittori classici - tra cui il mio favorito e grande ispiratore, Edvard Munch-, analizzandone tecnica di tratto, colore, luce e ombra. Ho frequentato il Royal College of Art, dove prendevano sei studenti l’anno su duemila candidati. Là ho imparato tutto ciò che so su disegno, pittura, tecnica coloristica, in senso classico. Ho trovato questo “ripasso” rigeneratore: mi ha dato vibrazioni positive. Purtroppo a causa della malattia negli ultimi dodici mesi non ho avuto la forza per dipingere. Mi hanno asportato la vagina e gli organi riproduttivi… Un’operazione lunga che mi ha indebolita. La pittura si traduce in una vera attività fisica: è meglio della palestra! Quando dipingo sto in piedi, mi muovo intorno alla tela, disegno, uso colori: a volte esce fuori un casino (“it’s really fucked up!”), e ricomincio. Al momento, davvero, non sono in grado di farlo, purtroppo. Allora mi sono detta: “Prendo un anno sabbatico”. È un’occasione per rivedere elementi della mia formazione, della mia carriera e, perché no, della mia vita. Una cosa è certa: non poter dipingere è orribile: “it’s fucking horrible!”. Ho anche eliminato tutte le altre tecniche usate in precedenza: il cucito, i film, le foto, concentrandomi solo sulla pittura. Per quanto riguarda la casa, muovo continuamente mobili nello spazio di casa, e in astratto nella mia mente; l’ho sempre fatto, anche da bambina. Mi interessa fare esperimenti con lo spazio interno. Per quanto riguarda l’amore, beh, è un discorso lungo. Ho davvero amato solo tre volte nella mia vita, e sono pronta a trovare nuovamente amore - un amore maturo e profondo, ho 57 anni, i parametri sono cambiati».

I tuoi ultimi lavori sono in questo momento esposti a Bruxelles, alla Xavier Hufkens Gallery: “Detail of Love”, mostra inaugurata senza pubblico e in tua assenza il 30 ottobre. Come mai a Bruxelles?
«Perché la Hufkens Gallery è di mia proprietà. Ho tre gallerie: a Bruxelles, a Roma e a Londra. Mi manca New York, ma spero di averne una anche lì, prima di morire. Xavier è il mio gallerista ed è un caro amico, ci conosciamo da 20 anni, mi ha aiutato a curare l’esposizione. Sono fortunata, perché sono in ottimi rapporti con tutti e tre i galleristi: è importante per prendere decisioni sugli artisti da esporre».

Cosa pensi delle restrizioni per l’epidemia? Può funzionare il digitale?
«Ero molto scettica sull’arte digitale all’inizio. Poi ho cambiato idea. Anzitutto a causa della malattia non posso muovermi molto, quindi sono grata alle possibilità digitali. Ho assistito di recente a un talk-show online di una collega pittrice, Cecily Brown, che ha i suoi lavori alla Paula Cooper Gallery a New York; è stato interessante, mi ha dato energia e qualche idea. Non sarei mai potuta essere fisicamente a Manhattan. Certamente preferisco andare di persona alla National Gallery, ad esempio. Ci sono stata la settimana scorsa per la mostra su Artemisia Gentileschi, grande donna oltre che artista, e ho vagato - sulla sedia a rotelle - per quelle splendide gallerie che non vedevo da tempo. Lo confesso, ho avuto un orgasmo… è stato bellissimo e commovente, un ritorno alla vita vera!».

La mostra “Loneliness of the Soul” aprirà a dicembre alla Royal Academy, con opere tue e di Munch. Hai curato tu stessa quella parte?
«Si, assolutamente. Ci sono voluti molti viaggi ad Oslo, con visite all’archivio e al museo di Munch, ma è stato bellissimo. L’esposizione è stata curata da diverse persone, ma di Munch mi sono occupata personalmente. Rimane il mio artista preferito. Le sue opere mi hanno consolato dopo il mio aborto in gioventù e nei momenti difficili. Tra le opere ci sono: “Women in Hospital” (1897), “Death of Marat” (1907), “Consolation” (1907), “Self-Portrait by the Death Bed” (1940)».

Dove dipingi, e vivi, al meglio?
«In Francia. Ho una piccola casa in campagna, vicino a un lago, nel Var. Amo trascorrere del tempo lì, fuori dal mondo trendy e chiassoso di Londra. È una casa rurale, con un piccolo atelier, dove lavoro magnificamente; non parlo francese, ma non è un problema. Amo molto Londra, dove ho un atelier gigantesco, ma la pace campestre mi ha sempre ispirato. Non vedo l’ora di tornarci, salute permettendo!».

Che rapporto hai con la tua città natale, Margate, sulla costa della provincia “povera” d’Inghilterra, dove sei cresciuta da adolescente ribelle?
«Un buon rapporto. Nel frattempo è diventata un centro di arte contemporanea con gallerie trendy e tanti giovani artisti. I miei ricordi da adolescente non sono molto belli, ma diciamo che ci siamo riconciliati: torno a Margate in uno stato mentale positivo».

Sei sempre stata vicina alla tua famiglia, a tuo fratello gemello Paul.
«Siamo cresciuti insieme, in sintonia assoluta e lo siamo ancora. Mi sta rimettendo a posto l’atelier di Margate: appena potrò, andrò a dipingere anche là. Ho perso mia madre quattro anni fa, anche con lei avevo un rapporto di affetto e comprensione. Un altro gran dolore è stata la perdita del mio gatto, compagno di vita di vent’anni. Credevo di morirne. Ultimamente, specie durante la malattia, mi sono concentrata solo su valori positivi: amore, amicizia, arte, luce. In passato associavo l’amore al dolore, ora cerco di associarlo a vita e luce, insieme all’arte. Ho intenzione di continuare così: tra positività e luce. Troppi sono ossessionati da pessimismo e tenebre: non fanno per me».

Progetti per il futuro?
«Sto per traslocare dal sud di Londra, dove ho vissuto tutta la vita, al centro, in una casa con un atelier dove potrò trascorrere il resto della convalescenza, e riprendere a dipingere. Non so quanto tempo mi rimane da vivere, ma voglio farne il miglior uso: disegno, pittura, luce, e tanto amore!».

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