«Sono poesie in cui per vedere la luce devi mettere a posto i cavi elettrici», spiega Ulderico Pesce, attore, regista, drammaturgo, protagonista appassionato di tanti spettacoli teatrali che diventano ogni volta battaglie civili, da Fiato sul collo a Petrolio. Con lei, figlia di Carlo e nipote di Nello Rosselli, assassinati per ordine di Mussolini nel 1937, strinse un'amicizia sincera. La ospitò tante volte nella sua casa di Rivello, il borgo lucano incastonato nella Valle del Noce, dove ancora oggi sono custoditi alcuni dei quaderni della poetessa, scritti in periodi diversi della vita. «Amelia era attratta soprattutto dal rapporto fra poesia, parola e musica – racconta Ulderico sfogliando quelle pagine ingiallite dal tempo -. Voleva costruire uno strumento musicale, una sorta di fisarmonica, che fosse in grado di riprodurre altri 18 suoni fra il tono e il semitono e realizzava dei disegni per fare delle prove. Era convinta che ci fossero ancora un'infinità di suoni fra una nota e l'altra e la stessa cosa pensava degli spazi bianchi tra le lettere, cioè credeva che ci fossero tantissime altre lettere non coniate. Iniziò così a scrivere per rendere visibile ciò che nella scrittura era invisibile». Da "Variazioni belliche" a "Impromptu", passando per "Serie ospedaliera", "Documento" o "Appunti sparsi e persi", la sua lingua fu sempre invenzione e sperimentazione.
Ad Amelia Rosselli, nata 90 anni fa (il 28 marzo del 1930 a Parigi), Ulderico Pesce dedica il suo ultimo spettacolo teatrale: Il Folle volo, che ha debuttato al Festival di Radicondoli dopo un'anteprima nel bellissimo Convento cinquecentesco di Sant'Antonio a Rivello (prossime tappe Milano, Teatro Menotti, e Matera, Ipogei Motta, a febbraio). Un monologo intenso interpretato da Maria Letizia Gorga (musiche di Stefano De Meo e Pasquale Laino), che ripercorre le tappe di una vita: le passioni e le ossessioni di Amelia - ha sempre sostenuto di essere “spiata dalla Cia” -, la schizofrenia paranoide, fino a quel “folle volo” dalla casa al quinto piano di via del Corallo, a Roma, dove Amelia si gettò giù l'11 febbraio del 1996.

«Ad Amelia, che amava stare in questo borgo dalle case addossate, dedicheremo un Parco letterario, nel comune di Rivello, che ricordi il suo rapporto con il mondo arcaico contadino – racconta Ulderico Pesce -. Raccoglieremo ed esporremo al pubblico tutto il suo materiale d'archivio e i documenti sulle grande rivolte contadine contro il latifondisti che lei e Scotellaro tanto amavano. Il centro Mediterraneo delle arti ha presentato il progetto al Mibact e nello stesso tempo il Comune si sta muovendo con la Regione. Nel frattempo è stato istituito il Premio Amelia Rosselli (assegnato a Franco Arminio, Patrizia Minardi e al Teatro Menotti) per ricordare la sua figura, la sua opera».
Tenere viva la sua memoria è quasi un atto di coraggio. La sua stessa vita fu tormentata, come la scrittura (di recente pubblicazione la biografia "Miss Rosselli" di Renzo Paris, Neri Pozza).
«Suo padre Carlo comprò un motoscafo per far fuggire Pertini da Lipari alla Corsica e poi a Parigi per organizzare la Resistenza», ricorda Ulderico: «Carlo, per Mussolini, era un uomo d'azione, il braccio armato dell'antifascismo italiano, il teorico del socialismo liberale». Quando lui e suo fratello Nello furono uccisi Amelia era molto piccola, aveva 7 anni, ma si ricorderà sempre di quella bara. «Mi raccontava che dal balcone vedeva tantissime persone che aspettavano la salma del padre, 150mila fra comunisti, anarchici, socialisti», continua Ulderico. Da quel momento la madre di Amelia non parlò più la lingua italiana, considerata la lingua della dittatura. Fu Salvemini ad aiutarle nella fuga per metterle in sicurezza. Perché la famiglia, oltre ad essere antifascista, era anche ebrea. Ma durante il viaggio in nave verso il Canada lei, a 8 anni, cominciò ad avere le allucinazioni. Una sera sua madre bussò alla cabina, ma Amelia vide solo un nazista biondo («quel “Biondo” che tirava sempre in ballo e che minacciava, quando la sua presenza “immaginaria” diventava ossessiva, dicendo “ne parlo con Pertini”»). E poi sentiva sempre delle voci («solo nella sezione del Pci di Trastevere diceva di non sentirle»).
Arrivò in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Conobbe Rocco Scotellaro nel 1950 a Venezia, a bordo di un battello. Andavano entrambi ad un convegno sui fratelli Rosselli. Scattò subito una forte intesa. Fu un grande amore. E dopo il rifiuto verso il mondo borghese delle città, Amelia ritrovò il suo spirito di libertà in Basilicata, grazie a Rocco. In quel periodo si avvicinò al mondo etnologico. Quando Rocco morì, nel 1953, Amelia perse la memoria e fu rinchiusa in un manicomio in Svizzera, subì l'elettoshock, finché tornò in Italia e cominciò a scrivere opere meravigliose, fra cui "Diario in tre lingue" (1955-56). Del mondo scriveva: «è sottile e piano: / pochi elefanti vi girano, ottusi» (da "I fiori vengono in dono", in "Documento").
Ma come è nata l'amicizia tra la poetessa e Ulderico Pesce? «Ci siamo conosciuti nel 1986, nella pizzeria “da Francesco” dietro piazza Navona. Lei indossava un cappotto grigio e la chiamavano tutti “maestro”», racconta: «Mi avvicinai e quando le dissi che ero di Rivello mi chiese se era vicino a Tricarico, il paese di Scotellaro. Probabilmente le ricordai lui, che lei aveva molto amato. Durante il suo funerale la trovarono che vagava fra i campi. Solo anni dopo, non riuscendo più a muovere le dita e quindi a suonare a causa della malattia, cominciò a dedicarsi alla scrittura più che alla musica. Diventammo subito molto amici io e Amelia. Lei mi faceva leggere le cose che scriveva e gli scritti di Rocco. A Roma ci scambiavamo gli appartamenti, io dormivo nella sua casa in centro e lei nella mia a San Lorenzo perché, diceva, le ricordava il mondo operaio. Mentre era in vita io venivo a conoscenza ogni volta di qualcosa di lei. Quando scoprii, per esempio, che aveva lavorato con Carmelo Bene e le chiesi come mai si era interrotto il loro sodalizio artistico lei mi rispose: “Malatrattava le donne, e io l'ho steso con un pugno”».
Hanno perfino recitato insieme Ulderico e Amelia, lui nei panni di Rocco, lei di se stessa. Era il 1992 quando al Teatro Beat '72 di Roma andava in scena "Diario Ottuso", l'unico libro di prosa pubblicato da Amelia Rosselli. E due anni prima, nella Sala Santa Rita, aveva debuttato "La libellula", un poemetto sulla libertà costruito su variazione intertestuali dei poeti che contribuirono alla sua formazione, da Campana a Montale.
«Si divertì come una pazza», ricorda Ulderico: «Le ho voluto molto bene, mi ha fatto riavvicinare lei al mondo arcaico da cui mi ero allontanato per lavorare a Roma. L'ho protetta molto, l'ho accudita, l'ho portata al mare e al cinema. In quel periodo non scriveva. Mi diceva: “La poesia è morta all'Idroscalo” (con Pasolini), “non c'è più niente da scrivere”».
Erano gli anni che andavano dal 1986 al 1990. Poi Ulderico è partito per la Russia e lei ha continuato la sua vita nella Capitale. «Ho saputo della sua morte dal Tg1», ricorda Ulderico: «Abbiamo vissuto momenti molto felici insieme, ma né io né altri siamo mai riusciti a estirparle quel filo di malessere che non l'abbandonava mai. Quando sono arrivato a Roma e il suo corpo non era già più in casa, sono entrato nell'appartamento di via del Corallo e ho girato un video: pensavo si fosse gettata giù dal balcone, era più facile lanciarsi, invece aveva scelto la finestrella della cucina che portava sul tetto. Per raggiungerlo toccava salire su una sedia e arrampicarsi. Così si accedeva sul tetto, e da lì il salto. L'ultimo volo. Amelia aveva scelto il percorso più faticoso. Tanto che la pantofola destra era rimasta sotto la sedia impagliata. Si era seduta, forse, proprio per ammirare il paesaggio o per provare a camminare nell'aria. Per questo ho chiamato lo spettacolo "Il folle volo", il volo per eccellenza, come quello di Ulisse nell'Inferno dantesco, solo che lui sfidò la conoscenza, lei la possibilità di un'altra vita, aerea, come la sua Libellula».