Il bel ritorno su Rai Tre del nuovo ciclo di “Che ci faccio qui”. Senza lacrime né morbosità. Perché quando le storie parlano l'evidenziatore non serve

Corpi martoriati, corpi distorti, corpi rinati, corpi scolpiti: quattro storie che partono dalla fisicità cercata, perduta o ritrovata dei protagonisti per creare una mappa umana, da seguire, da fare propria. In sintesi, Domenico Iannacone è tornato.

Col nuovo ciclo di “Che ci faccio qui” (il lunedì su Rai Tre a un orario insostenibile) il filo resistente che unisce quattro storie lontane è la cicatrice che si mostra, la fragilità che rinasce potenza e ognuna di queste privatissime esperienze diventa storia di tutti.

Dal corpo di una donna transgender a quelli creati da uno scultore non vedente, dal corpo di un disabile a quello dei sopravvissuti. Così abbiamo visto nella puntata di esordio il volto straziato di Marco Piagentini, l’uomo che non ha più la pelle, bruciata insieme ai suoi figli e a sua moglie nella strage di Viareggio. E quello di Daniela Rombi, che nella maledetta esplosione del treno ha perso sua figlia, dopo un’agonia devastante durata 42 giorni. Senza concessioni allo spettacolo facile. Non c’è una lacrima, neppure una lacrima nei racconti e nelle accuse, nessuna scorciatoia visiva all’emozione, niente trucchi, niente occhi lucidi, primi piani morbosi, indugi sfacciati dell’inquadratura a cercare una crepa, un cedimento. Perché quando si affronta qualcosa che vive del suo contenuto, il trucco tristemente abituale diventa finalmente superfluo.

Le loro parole sui corpi disfatti trasudano un dolore contemporaneo che si fa fatica a immaginare, ma non piangono davanti alle telecamere, non trasformano in show la loro spietata, sacrosanta denuncia. «Le mie ferite si riaprono la mattina quando mi guardo allo specchio perché la mia pelle è testimone di quella notte» dice Marco. La mamma di Emanuela ricorda: «Quando entro nella sua stanza per accarezzarla, l’infermiere mi dice “Non alzare le coperte, te lo consiglio”». E lei ubbidisce. Per non vedere il corpo disfatto, quel corpo che non si alzerà mai più dal letto di ospedale.

Ecco è qui che si riconosce il tratto di questo strano giornalista, che parla poco e guarda dritto negli occhi, senza bisogno di usare l’evidenziatore per sottolineare quello che serve. Bastano le parole dei sopravvissuti a un lutto nazionale, scampati all’orrore in cerca della solita giustizia che chissa perché sembra non essere mai dovuta. Bastano i loro corpi, una mano che incide i nomi delle 32 vittime su una stele, e un dito del sopravvissuto che li sfiora. Basta infine il corpo di Domenico Iannacone che scuote la testa al racconto, in silenzio, senza bisogno di aggiungere neppure una sillaba. Gira le spalle, e se ne va.

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